Dato che i commenti di Massimo erano troppo lunghi per inserirli alla fine del post relativo all'affaire Moro, li trascrivo qui di seguito col suo permesso. Chi volesse riandare al post in questione ecco qui l'indirizzo seguito dal titolo
https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=6748458423532949252#editor/target=post;postID=1991103006282909553;onPublishedMenu=allposts;onClosedMenu=allposts;postNum=35;src=postname
16 marzo 1978, Istituto per geometri Antonio Canova, Vicenza
Caro Paolo,
devo dire che hai veramente una memoria straordinaria. I fatti di cui narri, non li ricordavo più. Non mi ricordavo della convocazione del Preside e della richiesta di assemblea, anzi, mi ricordo dell'assemblea ma non come si svolse, chi intervenì e se ci fossero interventi da parte dei professori.
Mi ricordo benissimo invece i fatti esterni alla scuola, di come tra i "compagnotti" la cosa fu presa con sbigottimento da parte di alcuni, altri invece con mezzi sorrisini che denotavano una qualche compiacenza.
A quel tempo ero iscritto alla FGCI (giovani comunisti) e la fede nel Partito era assoluta o così almeno si riteneva, in realtà non tutti approvavano la linea della fermezza. Sembrava infatti che si volesse difendere ad ogni costo l'accordo tra DC e PCI per andare al governo. Mi sembrava insomma che per entrare nella stanza dei bottoni si dovesse sacrificare l'uomo che era l'artefice di quell'accordo. Cosa per me inconcepibile!
Dall'altra parte il tentativo di trattativa portata avanti dal PSI e da Marco Boato, che a me sembrava più ragionevole, fu cassata quasi come un tradimento della nazione.
Ma tant'è, il Compromesso Storico fu praticamente abortito e a tutti fu fatto credere che fu quello il vero obiettivo delle BR.
Nel frattempo in Italia non si contavano i movimenti di tutti i tipi che nascevano nelle varie città.
Mi ricordo che nel '77 andai a Modena alla festa nazionale dell'Unità ad ascoltare Berlinguer, fu il famoso discorso sugli"untorelli" che avevano messo a ferro e fuoco Bologna e si preparavano alla grande assemblea che doveva far nascere il "Movimento". Tornando a casa in autostop mi fermai proprio in quella città. Fui letteralmente travolto da qull'aria di libertà, di trasgressione e insieme di impegno politico che trovavi ad ogni angolo di strada, nelle osterie allora fumose e piene di musica e di canzoni che parlavano di lotta e ribellione. Il Movimento non naqque mai e si disperse in mille rivoli e prese mille forme. La mia giovinezza e spensieratezza mi avvicinò agli Indiani Metropolitani, esperienza che mi permise di affrontare le mie sucessive esperienze politiche con il giusto distacco e con una buona dose di sana ironia.C'era una canzone che faceva da Manifesto: "Ho visto degli zingheri felici" del grande Claudio Lolli, ti consiglio di riascoltarla. Il tarlo però aveva cominciato a rodere, ci mise qualche anno ma alla fine fece il suo dovere e mi allontanai dalla Grande Madre Chiesa (il PCI) e mi trovai ad essere uno dei fondatori di Democrazia Prolotaria a Vicenza.
Tornando ai giorni del rapimento mi ricordo che lo vissi con molto fastidio, certo non mi sfuggiva la gravità del fatto, anzi, ma lo sentivo come un fatto distante dalla mia vita, come fosse un gioco fatto di burattini e grandi burattinai che combattevano una battaglia oscura e a me estranea.
Hai ragione a dire che non sapremo mai come si svolsero realmente i fatti. Parlando anni dopo con persone che pur non essendo coinvolte ma erano comunque contigue alla sinistra "eversiva", ho ricavato l'impressione che nemmeno loro sapessero ciò che stava realmente accadendo. Credo che sia plausibile il coinvolgimento di "servizi" non solo stranieri ma anche nostrani. In fondo la differenza di trattamento tra chi ha realmente assassinato uomini delle forze dell'ordine, giudici, giornalisti, operai, politici e chi si trova ancora in prigione sottoposto al "41 bis" senza aver provato la partecipazione a fatti di sangue mi fa pensare ad un trattamento di favore in cambio di un silenzio assoluto su fatti altrimenti scomodi o adirittura eversivi.
Sui giorni attuali: nulla da dire salvo maledire la sinistra italiana che non trova modo di unirsi e di litigare su tutte le virgole che si trova davanti! Per questo ho aderito a questo nuovo progetto nato da dei matti di Napoli che come tutti i pazzi di questo mondo credono di riunire tutti i movimenti sotto un'unica bandiera quella di Potere al Popolo. Ma in fondo, mezzo matto lo sono anchio.
A presto Paolo spero di offrirti quel caffè che ancora avanzi da quella vecchia scommessa.
Massimo Schiavotto
Nota a Margine:
1) non ho l'account google per poterti scrivere direttamente sul Blog, ma se vuoi aggiungere quanto scritto nei commenti, mi farebbe piacere.
2) Se può interessarti, assieme a due amici ho curato il sito di documentazione storica di DP www/democraziaproletaria.it
3) Claudio Lolli oltre aver scritto "Ho visto anche degli zingheri felici", ha srittoanche "Disoccupate le stradedai sogni". Credo che il secondo risponda molto di più ai miei stati d'animo diquegli anni.
lunedì 30 aprile 2018
mercoledì 25 aprile 2018
Israele davanti allo specchio
Il Vice capo dell’Amministrazione israeliana nei Territori, Haim Mendes, ha dichiarato pochi giorni fa che sarebbero già più di 5 milioni gli arabi palestinesi che vivono nelle regioni di Cisgiordania e striscia di Gaza: sommati agli arabi che vivono in Israele equivarrebbero al numero totale degli ebrei (https://www.israele.net/quanti-arabi-vivono-a-gaza-in-cisgiordania-e-in-israele-e-un-conto-complicato). Alcuni esperti, di cui uno citato nell’articolo qui sopra, rifacendo meglio i conti arrivano a dire che “gli ebrei sono ancora la maggioranza, ma è una maggioranza esigua che Della Pergola stima intorno al 52%: un divario destinato verosimilmente a chiudersi entro i prossimi 15-20 anni.”
Si prepara quindi un avvenire vicino dove la scelta finale sarà dirompente, e questo indipendentemente da chi comanderà in Israele. Da un lato il mantenimento di un regime democratico, dove tutti i cittadini maggiorenni potranno votare (col rischio che gli ebrei vengano a trovarsi in minoranza e il governo passare agli arabi-israeliani) oppure rinforzare e rendere definitivo il regime di apartheid, facendo di Israele un novello Sudafrica ((non si dimentichi che Israele fu tra i pochi stati sovrani a sostenere economicamente e politicamente la politica razzista del Sudafrica!).
Un avvocato israeliano dichiara che questo futuro, la seconda opzione, si sta già preparando: “Nei lugubri uffici dell’inattaccabile Ministero della Giustizia a Gerusalemme Est, nelle anguste sale riunioni della Knesset e nelle nobili aule della Corte Suprema, i migliori avvocati di Israele stanno lavorando a tempo pieno per plasmare il più grande cambiamento epocale dalla conquista della Cisgiordania nel 1967. Gli avvocati governativi sono indaffarati a dare consigli, a elaborare disegni di legge e a difendere gli sforzi di Israele per espandere la propria giurisdizione legale e amministrativa oltre i confini dell’armistizio del 1949, per tutelare gli interessi dei coloni ebrei a spese dei palestinesi sotto occupazione, i cui diritti civili sono sospesi.
Le commissioni della Knesset stanno predisponendo una legislazione volta a espandere e consolidare il sistema giudiziario duale che già esiste in Cisgiordania: un codice per i coloni, un altro codice per i palestinesi. Queste nuove leggi verranno applicate in un quadro nel quale i colonizzati sono dominati dai colonizzatori, con la chiara intenzione di mantenere tale dominio. Anche il potere giudiziario israeliano si è unito nell’impresa, consentendo l’esproprio delle proprietà palestinesi a beneficio dei coloni israeliani.” (http://nena-news.it/israele-e-lannessione-a-colpi-darma-giudiziaria/)
Pochi giorni fa veniva assegnato un importante premio allo scrittore David Grossman (che ha perso un figlio militare nel conflitto tra Israele e gli insorti palestinesi); nel suo discorso (riferito ai 70 anni di Israele) ha parlato del concetto di fortezza e casa, con queste parole:
«Spero che celebreremo ancora molti altri anni e molte generazioni di figli, nipoti e pronipoti - ha detto Grossman - che vivranno qui, accanto a uno Stato palestinese indipendente, nella sicurezza, nella pace e nella creatività e - cosa più importante di tutte - in un contesto quotidiano sereno, da buoni vicini; che possano sentirsi a casa qui».
Già, ma che cos'è una casa? «Un posto le cui mura, i confini - ha risposto lo scrittore - sono chiari e accettati, la cui esistenza è stabile, solida e serena, i cui abitanti conoscono le sue regole profonde; dove le relazioni con i vicini sono state definite. Una casa è qualcosa che promuove un senso di futuro. Ma noi israeliani - ha proseguito David Grossman - anche dopo settant'anni non ce l'abbiamo ancora qui. Non importa quante parole che grondano miele patriottico sentiremo nei prossimi giorni. Non siamo a casa. Israele - ha ricordato ancora - nacque perché il popolo ebraico, che non si era quasi mai sentito a casa nel mondo, avesse finalmente una casa. Ecco, settant'anni dopo Israele sarà anche una fortezza, ma non è una casa. Perché se i palestinesi non avranno una casa, non potremo averla mai neanche noi israeliani. E se Israele non sarà una casa, non lo sarà mai nemmeno la Palestina».
Nel discorso è andato poi avanti a spiegare punto per punto perché Israele oggi non è una casa: dove c'è un'occupazione - ha detto lo scrittore - lì non c'è una casa; dove si cerca di distruggere l'autorità della Corte Suprema, non c'è una casa; dove si cerca di sbarazzarsi degli eritrei e dei sudanesi con dubbi accordi con Paesi come il Ruanda o l'Uganda, non c'è una casa; dove si abbandonano gli ultimi della società, non c'è una casa….”
lunedì 23 aprile 2018
2018 L20: Emmanuel de Waresquiel - Talleyrand Dernières nouvelles du Diable
CNRS Edition 2011
Après l’immense succès de son Talleyrand, Emmanuel de Waresquiel prolonge sa réflexion sur cette figure fascinante, ténébreuse, tortueuse, immorale et géniale, en une série d’études que l’on lira comme le complément indispensable à la biographie du grand homme d’Etat. Virevoltant d’un monde à l’autre, grand seigneur corrompu, cynique absolu, maître espion et maître chanteur, diplomate hors pair qui négocia le Concordat et orchestra le Congrès de Vienne, monarchiste sous la monarchie, révolutionnaire sous la Révolution, bonapartiste sous Bonaparte, le « diable boiteux » a traversé les régimes et sauté les obstacles avec une souplesse, une intelligence des hommes et une rouerie à nulle autre pareille. Emmanuel de Waresquiel nous rappelle qu’au-delà des trahisons et des reniements, l’évêque défroqué fut, d’abord et surtout, un fils des Lumières, un théoricien libéral habité par l’idée que la raison devait toujours l’emporter sur les sentiments, et le calcul des possibles sur l’utopie. Il nous montre le diplomate en action, l’homme de paix et l’Européen, le confident du tsar Alexandre, le négociateur de Presbourg, Erfurt, Paris et Vienne. Il nous montre le formidable metteur en scène de son propre personnage, l’étiquette et les convenances, l’intimité et le charme, le savoir-faire et le savoir-vivre. Il nous montre, derrière les miroirs, derrière ses images innombrables, un homme extraordinairement complexe, paradoxal, pudique et secret, dont la destinée a profondément marqué l’histoire de la France moderne
Pallosissimo. Comprato solo perché il caro Octavio è molto interessato a questa figura storica. Magari avrei dovuto iniziare dall'opera principale di de Waresquiel.
Après l’immense succès de son Talleyrand, Emmanuel de Waresquiel prolonge sa réflexion sur cette figure fascinante, ténébreuse, tortueuse, immorale et géniale, en une série d’études que l’on lira comme le complément indispensable à la biographie du grand homme d’Etat. Virevoltant d’un monde à l’autre, grand seigneur corrompu, cynique absolu, maître espion et maître chanteur, diplomate hors pair qui négocia le Concordat et orchestra le Congrès de Vienne, monarchiste sous la monarchie, révolutionnaire sous la Révolution, bonapartiste sous Bonaparte, le « diable boiteux » a traversé les régimes et sauté les obstacles avec une souplesse, une intelligence des hommes et une rouerie à nulle autre pareille. Emmanuel de Waresquiel nous rappelle qu’au-delà des trahisons et des reniements, l’évêque défroqué fut, d’abord et surtout, un fils des Lumières, un théoricien libéral habité par l’idée que la raison devait toujours l’emporter sur les sentiments, et le calcul des possibles sur l’utopie. Il nous montre le diplomate en action, l’homme de paix et l’Européen, le confident du tsar Alexandre, le négociateur de Presbourg, Erfurt, Paris et Vienne. Il nous montre le formidable metteur en scène de son propre personnage, l’étiquette et les convenances, l’intimité et le charme, le savoir-faire et le savoir-vivre. Il nous montre, derrière les miroirs, derrière ses images innombrables, un homme extraordinairement complexe, paradoxal, pudique et secret, dont la destinée a profondément marqué l’histoire de la France moderne
Pallosissimo. Comprato solo perché il caro Octavio è molto interessato a questa figura storica. Magari avrei dovuto iniziare dall'opera principale di de Waresquiel.
2018 L19: Louis Maufrais - J'étais médecin dans les tranchées
Pocket 2010
Août 1914. Louis Maufrais, étudiant en médecine, pense présenter l'internat quand la guerre éclate. Le jeune homme rejoint le front, découvre les tranchées. Il va y rester quatre ans. Quatre ans pendant lesquels il côtoie la mort les pieds dans la boue et les mains dans le sang, jour et nuit enterré
au fond de postes de secours secoués par le souffle des obus. Quand il a un moment de repos, il prend des notes, photographie, pour raconter la souffrance,
celle de ses camarades, la sienne, mais aussi l'amitié, le burlesque, l'absurde...
«Voici un texte hallucinant. OEuvre d'un médecin, qui a fait toute la Grande Guerre dans les tranchées, il est à ce jour inédit, publié pour la première fois en ce 90e anniversaire de l'Armistice.
«Maufrais a été partout : d'abord en Argonne et en Champagne en 1915,
à Verdun et sur la Somme en 1916, à nouveau à Verdun en 1917, enfin chirurgien dans une ambulance d'avril 1918 à janvier 1919. Non seulement il a été sur tous les fronts de la guerre, en France, mais au feu quatre années sur quatre. En cela, son témoignage est unique. Il l'est aussi en ce que son activité
de médecin auxiliaire l'amenait à prendre des notes pour le suivi de ses blessés.
Libro comprato con molte speranze, abbastanza disilluse. A parte l'inizio, quando si scontra con la realtà della guerra, il resto è di una noia indicibile, un racconto geografico dei vari fronti sui quali è transitato, ma senza nessuna riflessione sulla guerra. Insomma, non consigliato.
2018 L18: Caryl Férey - La jambe gauche de Joe Strummer
Gallimard 2007
Mc Cash, s'il n'est plus flic, reste borgne et dévoré par une colère aussi vieille que son premier concert des Clash, à Belfast, avant les grèves de la faim de Bobby Sand et les victimes du Bloody Sunday... Plus de femme, pas d'avenir, des illusions perdues... Un ophtalmologue l'informe que s'il persiste à soigner par la destruction tout ce qui l'entoure, il sera vite et définitivement aveugle. Belle raison pour en finir d'une lumineuse balle dans la tête ! L'étincelle pourtant viendra d'ailleurs. Une lettre lui révèle qu'il est le père d'Alice. La mère est morte et c'est à lui désormais qu'il revient de veiller sur la petite... A peine Mc Cash est-il arrivé dans le village de sa fille qu'il trouve une autre fillette noyée. Alice vient le voir. Elle est le témoin qui dérange. Lorsque tombent les morts, Mc Cash redécouvre la peur et l'espoir mêlés. Lui qui voulait mourir mesure de plein fouet la valeur d'une vie. Celle de son enfant...
Pas mal. Come sempre Férey scrive come un americano,quindi sangue a non finire, il nostro eroe ovviamente soffre moltissimo dalla prima pagina all'ultima ma guai a lui se dovesse andare da un dottore... Insomma, il solito esagerato, ma che si legge con piacere
domenica 22 aprile 2018
Carta abierta a todos esos amigos y colegas con quienes hemos estado trabajando juntos estos años
Una versión hecha en casa (y actualizada) de mi post recientemente publicado hace dos días
Queridos todos,
Mi papel como "padrino" del enfoque territorial basado en el diálogo, negociación y concertación, desde el taller de Higuerote en 2001, me obliga, en cierto modo, a continuar estimulando la reflexión, la de U.ds y la mía, para pensar juntos qué mundo queremos ayudar a construir, con las fuerzas limitadas que tenemos a nuestra disposición.
Mi lucha, que les he propuesto a todos ustedes, siempre se ha basado en provocar cambios en la orientación filosófica y operativa de la organización para la cual muchos de nosotros hemos trabajado o todavía trabajamos. Esto necesitaba una visión, así como alianzas.
A lo largo de los años, he visto una creciente desconfianza en los partidos políticos entendidos como organizadores de instancias ciudadanas. Los vi convertirse en instrumentos de poder, sin importar su color político, olvidándose de sus principios fundamentales tan pronto como llegaban al poder.
También observé la baja propensión de nuestra organización a interesarse por cuestiones fundamentales que, de hecho, fueron excluidas del léxico institucional. Me refiero, por supuesto, a la cuestión del "poder", sus asimetrías y su dinámica. La idea de que podríamos reducir la pobreza y la inseguridad alimentaria evitando tocar los centros neurálgicos del poder me parece una contradicción total, casi diría un oxímoron. La FAO, por razones impuestas (por los países miembros, en particular -pero no solo- del Norte) y por razones autónomamente privilegiadas por parte de los administradores y dirigentes internos, ha elegido permanecer, durante muchas décadas, en el campo de las técnicas y la tecnología, cultivando el sueño de que una mayor producción agrícola por sí sola resolvería los problemas de la humanidad.
En las últimas décadas ha habido signos de despertar, mostrando un creciente interés en el tema de los derechos. En este sentido, se incluyen iniciativas interesantes, como el Tratado sobre recursos fitogenéticos, el Derecho a la alimentación y, más cerca de nosotros, las Directrices voluntarias para una buena gobernanza (VGGT). Intensos esfuerzos, años de trabajo, que se resuelven con productos finales aclamados por los países miembros pero (particularmente para el último) con una traducción práctica en la vida cotidiana muy limitada.
Al mismo tiempo, hemos visto un número creciente de conflictos relacionados con los muchos recursos naturales (tierra, agua, aire, arena, recursos genéticos, minerales, petróleo) https://landportal.org/voc/themes/land-conflicts) . Mirando de cerca nos dimos cuenta de que los viejos paradigmas Norte-Sur o Público-Privados o Capitalismo-Comunismo no eran suficientes para explicar lo que estaba sucediendo y, sobre todo, no daban indicaciones sobre cómo salir de él.
La sensibilidad ambiental también ha crecido, pero incluso allí no es posible comprender lo que nuestra organización tiene para ofrecer, más allá de la retórica, para los que no tienen, los que han sido abandonados, en resumen, los excluidos. El foco se ha centrado en el tema de la agroecología y la agricultura inteligente, pero una vez más estamos jugando en el patio de las técnicas, y nunca de la política y el poder.
También hemos visto cómo los movimientos campesinos han perdido ese aura mística que disfrutaban hace 10-20 años, señalando-se más por sus ausencias en el terreno cuando los estábamos buscando ofreciendo alianzas concretas.
La respuesta que comenzamos a elaborar en 2001 fue una visión del desarrollo menos centrada en las técnicas y habilidades de los súper expertos externos, y más atenta a las dinámicas sociales, interactivas y a veces conflictivas entre una serie de actores y partes interesadas con intereses divergentes.
De hecho, hemos elaborado y propuesto una visión más compleja de la realidad circundante, y esto ha significado un trabajo lento pero constante para que nuestros colegas comprendan por qué era necesario ampliar el horizonte de observación. Sin embargo, muchos de los colegas de la FAO (así como de cualquier otra agencia de desarrollo) no están realmente interesados en estos asuntos delicados, simplemente porque consideran que su trabajo es como cualquier otro, es suficiente hacerlo correctamente, dentro de los límites de su conocimiento, y luego esperando que algo bueno sucediera.
De hecho, esto no sucede en el mundo real. En el mundo real, hay fuerzas (partes interesadas) que continúan concentrando activamente la riqueza (tener, conocer y tener poder) en manos cada vez mas reducidas. Los espacios de la democracia se ven disminuidos, el medio ambiente se destruye y los de abajo siguen explotados.
Poner a los seres humanos en el centro de la atención significa aceptar la ambivalencia humana de ser, al mismo tiempo, portadores de intereses individuales y actores del desarrollo de la comunidad. Estamos hechos así, esta es nuestra naturaleza y tuvimos que aceptar esta ambivalencia y trabajar dentro de estos límites. A esto deberíamos agregar la diferencia obvia de que nos llevamos a todos atrás: queremos cosas diferentes en momentos diferentes porque somos diferentes de nacimiento.
Estas diferencias están en juego en lo que hacemos en nuestros espacios de acción, locales, regionales o nacionales: tratamos de lograr resultados en línea con nuestras expectativas y para esto estamos dispuestos a ceder en algunas cosas. Sin embargo, todos tendremos una idea diferente y, considerados individualmente, todos consideraremos que nuestras expectativas son buenas, tanto individual como colectivamente.
Sobre la base de estos preámbulos, generamos una reflexión (de modalidad work-in-progress) marcada, a lo largo de los años, por las publicaciones que todos ustedes conocen: el DTPN en 2005 (
(http://www.fao.org/3/a-ak228o.pdf) el IGETI en 2012 (http://www.fao.org/docrep/016/me282s/me282s.pdf) el GreeNTD en 2016 ( http://www.fao.org/3/a-i6603e.pdf). Estos documentos clave han servido para resumir el estado de nuestro pensamiento, y ciertamente no deben considerarse como puntos finales.
Desde el DTPN hasta el GreeNTD, la gran diferencia es que finalmente hemos podido enfatizar más fuertemente la cuestión central del poder. Esto es lo que consideramos un éxito: comenzar a hablar de Poder en una organización que no quiere escucharlo y donde los Jefes y Directores nunca han apoyado estas reflexiones.
También hemos comenzado una reflexión, claramente inacabada, sobre la cuestión central de la dinámica de género (próximamente se publicará una versión revisada de IGETI). No podemos poner a los seres humanos en el centro de nuestras reflexiones y no profundizar lo que significan las discriminaciones de género en la actualidad.
En resumen, hay algunos problemas que deben abordarse, pero también deben examinarse con mayor atención entre nosotros.
Hace unos años, Chris y Marianna publicaron un documento muy importante: Cuando la ley no es suficiente (http://www.fao.org/3/a-i3694e.pdf). Se refería a la labor llevadas a cabo en Mozambique para fortalecer el papel de los paralegales como agentes de desarrollo y como facilitadores del diálogo y el conocimiento de la ley de tierras.
Por lo tanto, le propongo que continuemos nuestra reflexión exactamente a partir de esta pregunta: cuando la ley ya no es suficiente, ¿qué hacer?
Los proyectos típicos que lleva a cabo la FAO (no necesariamente los nuestros) se basan en la idea de proporcionar a los gobiernos asistencia técnica, experiencias comparativas exitosas y luego dejarles que decidan qué es lo mejor en su país específico. La retórica oficial es que al hacerlo promovemos una colaboración respetuosa de la historia, la cultura y las tradiciones locales, sin querer imponer puntos de vista externos. Sin embargo, la otra cara de la moneda es que se evita entrar en el tema del poder.
La pregunta que nunca ha sido respondida por mis jefes y directores en estos casi treinta años con FAO siempre ha sido la misma, repetida con más vehemencia desde que se aprobaron los VGGT: por qué razón un actor poderoso (los “QUE TIENEN” en el idioma de Alinsky), capaz para controlar partes relevantes del poder social, económico, cultural y de otra índole, ¿debería acordar espontáneamente compartir este poder con los que “NO TIENEN”? Puedo entender que aquellos que tienen creencias religiosas pueden pensar que los milagros suceden, como Paulo en el camino a Damasco, pero hoy en el camino a Damasco uno solo corre el riesgo de tomar bombas en la cabeza de un lado o del otro.
El dilema que han traído las VGGT es simplemente eso: la esencia de la VGGT ha sido copiada servilmente del tipo de trabajo que hicimos sobre el terreno, Mozambique, Angola, pero eliminando la parte que perturbaba los poderes dentro de FAO y de países miembros. Nuestro trabajo siempre se ha basado, incluso sin saberlo, en los principios de la organización comunitaria similar a S. Alinsky, tratando de encontrar algo a nivel local que nos permita iniciar el diálogo, y luego negociar un pacto territorial. Pero fuimos más allá, y en esto sentimos que estamos por delante de Alinsky. Este trabajo con las comunidades de hecho sirve para crear capital social, credibilidad, que luego se debe gastar en cuestiones más controvertidas, para subir de nivel de dificultad.
La confianza que hemos acumulado a nivel local ha servido para abrir un diálogo a nivel gubernamental, para asegurarnos de que cambien las políticas y las leyes. Discutimos con los ministros, pero también los llevamos a confrontar a sus poblaciones y, como resultado, se hicieron avances. Si nos limitáramos a trabajar con las comunidades, no se habría plantado nada duradero. Al utilizar este capital social (recién creado) de confianza, hemos hecho exactamente lo que se espera, en mi opinión, de una agencia de las Naciones Unidas. Las nuevas políticas y leyes han sido escritas localmente y no por nuestros expertos, pero lo más importante es que detrás de estos documentos se ha fortalecido una sociedad civil que ahora se defiende sola, bien o mal.
Cuando la ley ya no es suficiente, nos dice esto: debemos pensar más allá de la ley (o del documento político). Debemos asegurarnos de que las asimetrías de poder comiencen a reducirse, por eso hemos puesto tanto énfasis en la figura de los Paralegales, facilitadores del diálogo que no solo recuerdan los artículos de la ley, sino que pueden ayudar a promover un escenario de desarrollo donde los actores más débiles no solo son reconocidos, sino aceptados en la mesa de negociaciones como portadores de visiones e intereses importantes.
Por mi parte dejé la FAO, y ahora depende de usted continuar la lucha. Honestamente debo decir que los encuentro un poco lento. No he visto ningún documento sobre su forma de pensar y no escuché sobre ninguna reunión para discutir estos temas de una manera abierta y franca. Tal vez mis temores son exagerados, pero tal vez no. No podemos escondernos detrás de la cantidad de trabajo que tenemos, porque sabemos muy bien, cuando nos miramos en el espejo, que esta no es la razón. Todos tenemos responsabilidad con los que “NO TIENEN”, somos una Organización de las Naciones Unidas y tenemos la posibilidad (y la tarea) de pensar y proponer algo para el futuro.
Alinsky (https://archive.org/stream/RulesForRadicals/RulesForRadicals_djvu.txt) ha sido una buena inspiración durante muchas décadas, con él compartimos muchos puntos pero, creo yo, también hemos ido más allá. Creo que, partiendo de lo que hemos hecho en los últimos años, y de una lectura crítica de lo que Alinsky escribió, es posible continuar nuestra reflexión, hacia una "gobernanza" de los recursos naturales que, finalmente, comience a tocar los intereses en juego.
Open letter to all those friends and colleagues with whom we have been working together these years
A home made (and updated) English version of my recent post published two days ago
Dear all,
My role as "godfather" of the territorial approach based on dialogue, negotiation and concerted actions, since the Higuerote workshop in 2001, obliges me, in a certain way, to continue stimulating the reflection, yours and mine, to think together which world we want help building, with the limited forces we have at our disposal.
My fight, which I have proposed to all of you, has always been based on provoking changes in the philosophical and operational orientation of the organization for which many of us have worked or still work. This needed a vision, as well as alliances.
Over the years I have seen growing distrust in political parties intended as organizers of citizens instances. I saw them turn into instruments of power, regardless of their political color, forgetting all their founding principles them as soon as they came into power.
I also observed the very low propensity of our organization to be interested in fundamental issues that, indeed, were banned from the institutional lexicon. I’m referring of course of the question of “power”, its asymmetries and dynamics. The idea that we could reduce poverty and food insecurity by avoiding touching the nerve centers of power seems to me a total contradiction, I would almost say an oxymoron. The FAO, for reasons imposed (by member countries, in particular - but not only - of the North) and for autonomously privileged reasons by internal administrators and managers, has chosen to remain, for many decades, in the field of techniques and technology, cultivating the dream that an increased agricultural production alone would solve the problems of humanity.
In recent decades there have been signs of awakening, showing a growing interest in the issue of rights. In this vein are included interesting initiatives, such as the Treaty for plant genetic resources, the Right to Food and, closer to us, the Voluntary Guidelines for good governance (VGGT). Intense efforts, years of work, which are resolved with final products acclaimed by the member countries but (particularly for the last one) with a practical translation in everyday life very limited.
At the same time we have seen a growing number of conflicts related to the many natural resources (land, water, air, sand, genetic resources, minerals, oil - https://landportal.org/voc/themes/land-conflicts). Looking closely we realized that the old North-South or Public-Private paradigms or Capitalism-Communism were not sufficient to explain what was (and is) happening and above all did not provide indications on how to come out of it.
Environmental sensitivity has also grown, but even there it is not possible to understand what our organization has to offer, beyond rhetoric, to the Have-Nots, the Dropouts, in short, the excluded ones. The lights have been focused on the theme of agro-ecology and smart agriculture, but once again we are playing within the courtyard of techniques, and never politics and power.
We have also seen how the peasant movements have lost that mystical aura they enjoyed 10-20 years ago, noting more their absences on the ground when we were looking for them offering concrete alliances.
The answer we started to elaborate back in 2001, was a vision of development less centered on the techniques and skills of external super experts, and more attentive to social, interactive and sometimes conflicting dynamics among a series of actors and stakeholders with divergent interests.
In fact, we have elaborated and proposed a more complex view of the surrounding reality, and this has meant a slow but constant work to make our colleagues understanding why it was necessary to broaden the horizon of observation. However, many of FAO colleagues (as well as of any other development agency) are not really interested in these delicate issues, simply because they consider their work to be just like any other, to be done correctly, within the limits of their knowledge, and then hoping that something good would happen.
Indeed, this does not happen in the real world. In the real world there are forces (stakeholders) that actively continue to concentrate wealth (of having, knowing and power) in ever less hands. Spaces of democracy are diminished, the environment is destroyed and the ones below are exploited.
Putting human beings at the center of the attention, means accepting the human ambivalence of being, at the same time, bearers of individual interests and actors of community development. We are made like this, this is our nature and we had to accept this ambivalence and work within these limits. To this we should add the obvious difference that we carry all of us behind. We want different things at different times because we are different from birth.
These differences are at work in what we do in our spaces of action, local, regional or national: we try to achieve results in line with our expectations and for this we are willing to give in on some things. However, everyone will have a different idea and, taken individually, everyone will consider that their expectations are good both individually and collectively.
Based on these preambles we generated a work-in-progress reflection marked, over the years, by the publications that you all know: the PNTD in 2005 (http://www.fao.org/land-water/land/land-governance/land-resources-planning-toolbox/category/details/en/c/1043145/) the IGETI in 2012 http://www.fao.org/docrep/016/me282e/me282e.pdf) the GreeNTD in 2016 (http://www.fao.org/3/a-i6603e.pdf). These key documents have served to summarize the state of our thinking, and certainly should not be considered as final points.
From the PNTD to the GreeNTD the big difference is that we have finally been able to emphasize more strongly the central question of power. This is what we consider a success: start talking about Power in an organization that does not want to hear it and where Chiefs and Directors have never supported these reflections.
We have also begun a reflection, clearly unfinished, on the central question of gender dynamics (a revised version of IGETI will be published soon). We cannot put human beings at the center of our reflections and not delve into what gender discriminations mean today.
In short, there are some issues to be pursued, but also to be examined with greater attention among us.
A few years ago, Chris and Marianna published a very evocative document: When the law is not enough (http://www.fao.org/3/a-i3694e.pdf). It referred to the work we have carried out in Mozambique to strengthen the role of Paralegals as development agents as well as facilitators of dialogue and knowledge of land law.
I therefore propose you to continue our reflection exactly from this question: when the law is no longer sufficient, what to do?
The typical projects that FAO carries out (not necessarily ours) are based on the idea of providing governments with technical assistance, successful comparative experiences and then letting them decide what is best in their specific country. The official rhetoric is that by doing so we promote a collaboration respectful of history, culture and local traditions, without wishing to impose external views. However, the other side of the coin is that it avoids entering into the issue of power.
The question that has never been answered by my bosses and directors in these almost thirty years FAO has always been the same, repeated more vehemently since the VGGT were approved: for what reason a powerful actor (a HAVE in the language of Alinsky), able to control relevant parts of social, economic, cultural and other power, should spontaneously agree to share this power with the HAVE-NOT? I can understand that those who have religious beliefs may think that miracles happens, like Paul on the road to Damascus, but nowadays on the road to Damascus one risks only to take bombs in the head from one side or the other.
The dilemma that the VGGTs have brought along is just that: the essence of the VGGT has been copied slavishly by the type of work we did on the ground, Mozambique, Angola, but removing the part that disturbed the strong powers of the FAO and of member countries. Our work has always been based, even without knowing it, on the principles of the community organizing similar to S. Alinsky, trying to find something at a local level that would allow us to start the dialogue, and then negotiate a (socio-ecological) territorial agreement. But we went further, and on this we feel we are ahead of Alinsky. This work with communities in fact serves to create social capital, credibility, which is then to be spent on more controversial issues, so as to raise the bar.
The trust that we have built up at the local level has served to open a dialogue at government level, to make sure that they change policies and laws. We argued with ministers, but we also took them to confront their populations and, as a result, steps forward were made. If we were limited to working with the communities, nothing lasting would have been planted. By using this (newly created) social capital of trust we have done exactly what is expected, in my opinion, from a United Nations agency. New policies and laws have been written locally and not by our experts, but more importantly, behind these documents has been strengthened a civil society that now defends itself - good or bad - alone.
When the law is no longer enough, it tells us this: we must think beyond the law (or the political document). We must ensure that the asymmetries of power begin to shrink, this is why we have put such an emphasis on the figure of Paralegals, Facilitators of dialogue that do not just remember the articles of law, but that can help to start a development scenario where the weakest actors are not only recognized, but accepted at the negotiating table as carriers of important visions and interests.
I left FAO, and now it's up to you to continue the fight. I must honestly say that I find you a little bit slow. I have not seen any document on your thinking being circulated and I have not heard about any meeting to discuss these issues in a open and frank way. Maybe my fears are exaggerated, but maybe not. We can not hide behind the amount of work we have, because we know very well, when we look at ourselves in the mirror, that this is not the reason. We all have a responsibility towards all the HAVE NOT, we are a United Nations and we have the possibility (and the task) to think and propose something for the future.
Alinsky (https://archive.org/stream/RulesForRadicals/RulesForRadicals_djvu.txt) has been a good inspiration for many decades, with him we share many points but, I guess, we have also gone beyond. I believe that, starting from what we have done in recent years, and from a critical reading of what Alinsky wrote, it is possible to carry on our reflection, towards a "governance" of natural resources that, finally, begins to touch the interests at stake.
venerdì 20 aprile 2018
Lettera aperta ai tanti giovani e non più giovani con cui ho lavorato in questi anni
Cari,
il mio ruolo di “padrino” dell’approccio territoriale basato su dialogo, negoziazione e concertazione, fin dal lontano 2001, mi obbliga, in un certo senso, a continuare a stimolare la riflessione, mia e vostra, per pensare a assieme quale mondo vogliamo aiutare a costruire, con le forze limitate di cui disponiamo.
La mia lotta, che ho proposto a tutti voi, è sempre stata basata sul provocare cambiamenti nell’orientazione filosofica e operativa dell’organizzazione per la quale molti di noi hanno lavorato o lavorano tutt’ora.
Negli anni ho visto crescere la mia sfiducia nei partiti politici intesi come organizzatori delle istanze cittadine. Li ho visti trasformarsi in strumenti di potere, indipendentemente dal loro colore politico e dimenticare tutti i principi che li fondavano non appena arrivavano potere.
Ho osservato anche la scarsissima propensione della nostra organizzazione a interessarsi di temi fondamentali che, anzi, venivano proprio banditi dal lessico istituzionale. Parlo ovviamente della questione del potere, delle sue asimmetrie e dinamiche. L’idea che si potesse ridurre la povertà e l’insicurezza alimentare evitando di toccare i centri nevralgici del potere mi sembra un controsenso totale, direi quasi un ossimoro. La FAO, per ragioni imposte (dai paesi membri, in particolare - ma non solo - del Nord) e per ragioni autonomamente privilegiate dagli amministratori e manager interni, ha scelto di restare nel campo della tecnica, coltivando il sogno dell’aumentata produzione agricola che, da sola, avrebbe risolto i problemi dell’umanità.
Negli ultimi decenni ci sono stati dei segnali di risveglio, manifestando un interesse crescente per il tema dei diritti. In questo filone si inseriscono iniziative interessanti, come il trattato per le risorse fitogenetiche, il dritto al cibo e, più vicino a noi, le direttrici volontarie per la buona governanza (VGGT). Sforzi intensi, anni di lavoro, che si sono risolti con prodotti finali acclamati dai paesi membri ma con una traduzione pratica nella vita di tutti i giorni molto limitata.
Nel contempo abbiamo visto crescere, in numero e quantità, i conflitti legati alle tante risorse naturali (terra, acqua, aria, sabbia, risorse genetiche, minerali del sottosuolo …). Guardando da vicino ci siamo resi conto che i vecchi paradigmi Nord-Sud o Pubblico-Privato o Capitalismo-Comunismo non erano sufficienti per spiegare cosa stava (e sta) succedendo e soprattutto non fornivano indicazioni sul come venirne fuori.
E’ anche cresciuta la sensibilità ambientale ma anche lì non si riesce a capire cosa concretamente la nostra organizzazione abbia da proporre agli Have-Nots, i dropouts , insomma gli esclusi di sempre. Si sono puntate le luci sul tema dell’agricoltura ecologica, ma ancora una volta si è rimasti a giocare all’interno del cortile delle tecniche, e mai della politica e del potere.
Abbiamo anche constatato come i movimenti contadini abbiano perso quell’aura mistica di cui godevano 10-20 anni fa, notando più le loro assenze sul terreno quando li cercavamo per proporre loro delle alleanze, piuttosto che notare un loro attivismo che non si vede più.
La risposta che abbiamo iniziato a elaborare nel lontano 2001, fu quella di una visione dello sviluppo meno centrata sulle tecniche e sulle capacità di super esperti esterni, e più attenta alle dinamiche sociali, interattive e a volte, spesso, conflittive, fra una serie di attori e portatori di interessi a volte divergenti.
Di fatto abbiamo proposto una visione più complessa della realtà circostante, e questo ha significato un lavoro lento ma costante per far capire ai nostri colleghi, il perché fosse necessario ampliare l’orizzonte di osservazione. Molti dei colleghi FAO (e in altre agenzie) di fatto non sono interessati a queste tematiche, semplicemente perché considerano il loro lavoro alla stregua di qualsiasi altro per cui basta farlo bene, nei limiti del proprio sapere, e poi sicuramente qualcosa di buono succederà. Nel mondo reale non succede questo. Nel mondo reale ci sono forze in azione per continuare a concentrare la ricchezza (di avere, sapere e potere) in sempre meno mani. Si spinge per ridurre gli spazi di democrazia, si distrugge il medio ambiente e si sfruttano quelli che stanno sotto. Sono dinamiche all’opera a tutti i livelli, per cui non andiamo a fare la lista dei buoni e dei cattivi, perché non finiremmo mai.
Mettere l’essere umano al centro dell’attenzione di chi si occupa di sviluppo significa accettare l’ambivalenza umana di essere, nello stesso momento, portatori di interessi individuali e attori di uno sviluppo comunitario. Siamo fatti così e il primo punto è stato, per noi “territorialisti”, di accettare questa ambivalenza e lavorare dentro questi limiti.
A questo si somma l’ovvia differenza che ci portiamo dietro tutti quanti. Vogliamo cose diverse in momenti diversi perché siamo diversi dalla nascita. Non credo sia possibile, nemmeno qui, fare una lista di cosa sia buono e cosa non lo sia, al di là dell’enunciato di grandi principi.
Queste diversità si riscontrano in quello che facciamo eni nostri spazi d’azione, piccoli, medi o grandi: cerchiamo di ottenere dei risultati in linea con le nostre aspettative e per questo siamo disposti a cedere su alcune cose. Ognuno però avrà un’idea diversa e, presi singolarmente, tutti considereranno che le loro aspettative sono buone sia individualmente che per la collettività.
Da questi preamboli siamo partiti per costruire una riflessione in divenire marcata, negli anni, dalle pubblicazioni che voi tutti conoscete: il PNTD nel 2005, l’IGETI nel 2012, il GreeNTD nel 2016. Questi momenti chiave sono serviti a riassumere lo stato delle nostre riflessioni, e non possono certo considerarsi come dei punti finali.
Dal PNTD al GreeNTD la grande differenza è che abbiamo potuto sottolineare con maggior forza la questione centrale del potere. Ripeto, parlare di Potere dentro una Organizzazione che non vuole che si parli di questo e con Capi e Direttori che mai hanno appoggiato queste riflessioni.
Abbiamo anche iniziato una riflessione, chiaramente incompiuta, sulla questione centrale delle dinamiche di genere. Non possiamo avere al centro delle nostre riflessioni l’essere umano e non approfondire cosa significhi oggi le discriminazioni multiple per ragioni di genere.
Insomma, ci sono delle tematiche da portare avanti, ma anche da sviscerare con maggiore attenzione fra di noi.
Alcuni anni fa, Chris e Marianna hanno pubblicato un documento dal titolo molto evocativo: When the Law is not enough. Si riferiva al lavoro portato avanti in Mozambico per rafforzare il ruolo dei Paralegali come agenti di sviluppo oltreché facilitatori di dialogo e conoscenza della legislazione fondiaria.
La riflessione deve partire da questo interrogativo: quando la legge non è più sufficiente, cosa fare?
I progetti tipici che la FAO porta avanti (non necessariamente i nostri) si basano sull’idea di fornire ai governi una assistenza tecnica, delle esperienze comparate di successo per poi lasciar decidere loro cosa sia meglio nel loro paese specifico. Si dice voler promuovere una collaborazione rispettosa della storia, cultura e tradizioni locali, senza volersi imporre, ma nello stesso tempo si evita di entrare nel tema del potere.
La domanda che non ha mai avuto risposta dai miei capi e direttori in questi quasi trenta anni FAO è sempre stata la stessa, ripetuta con maggior veemenza da quando sono state approvate le VGGT: per quale ragione un attore potente (un HAVE nella lingua di S. Alinsky), capace di controllare parti rilevanti del potere sociale, economico, culturale e altro, dovrebbe spontaneamente accettare di spartire questo potere con gli HAVE-NOT? Posso capire che chi crede in un Dio possa pensare che, come Paolo sulla strada di Damasco, di colpo ci si possa pentire di quello che si è fatto e si voglia cambiar vita, ma al giorno d’oggi sulla via di Damasco si rischia solo di prendere bombe in testa originate da una parte o dall’altra.
Il dilemma che le VGGT si sono portate dietro è proprio questo: l’essenza delle VGGT è stata copiata pedissequamente dal tipo di lavoro che facevamo noi sul terreno, Mozambico, Angola, ma togliendo di mezzo la parte che disturbava i poteri forti della FAO e dei paesi membri. Il nostro lavoro è sempre stato basato, pur senza conoscerlo, sui principi del community organizing cari a S. Alinsky, cercando di trovare qualcosa a livello locale che permettesse di far partire il dialogo, la negoziazione e poi concertare un patto territoriale. Ma noi andavamo oltre, e su questo sentiamo di essere più avanti di Alinsky. Questo lavoro con le comunità di fatto serve a creare capitale sociale, credibilità, che va spesa successivamente su temi più controversi, in modo da alzare il tiro.
La fiducia che ci siamo costruiti a livello locale è servita per aprire un dialogo a livello governativo, per far sì che cambiassero le politiche e le leggi. Abbiamo litigato con ministri, ma li abbiamo portati a confrontarsi con le loro popolazioni, e dei passi in avanti sono stati fatti. Se ci fossimo limitati a lavorare con le comunità, nulla di durevole sarebbe stato piantato. Usando invece il capitale sociale della fiducia per provare ad aprire tematiche delicate come l’accaparramento delle terre, la necessità di migliorare le politiche e le leggi, abbiamo svolto in pieno, a mio giudizio, quello che ci si aspetta da una agenzia delle nazioni unite. Le politiche e le leggi sono state scritte localmente e non dai nostri esperti, ma cosa ancor più importante, dietro questi documenti si è rafforzata una società civile che adesso si difende - bene o male - da sola.
Quando la legge non è più sufficiente ci dice proprio questo: bisogna pensare al di là della legge (o del documento di politica). Bisogna far sì che le asimmetrie di potere inizino a ridursi, per questo abbiamo lottato tanto per far riconoscere la figura dei Paralegali, dei Facilitatori di dialogo che non si limitano a ricordare gli articoli di legge, ma che possono aiutare a intavolare uno scenario di sviluppo dove gli attori più deboli siano non solo riconosciuti, ma accettati al tavolo di negoziazione in quanto portatori di visioni e interessi importanti.
Io me ne sono andato, e adesso tocca a voi continuare la lotta. Devo dire onestamente che vi trovo un po’ fiacchi intellettualmente. Non vedo passare nessun documento di riflessione, non sento parlare di nessuna riunione per discutere di questi temi fuori dalla quotidianità di cosa farò domattina. Magari le mie paure sono esagerate, ma forse no. Non possiamo nasconderci dietro la quantità di lavoro che abbiamo, perché sappiamo benissimo, quando ci guardiamo allo specchio, che non è questa la ragione. Noi tutti abbiamo una responsabilità verso tutti gli HAVE NOT, siamo Nazioni Unite e abbiamo la possibilità (e il compito) di pensare e proporre qualcosa per il futuro.
Alinsky è stato un buon inspiratore per molti decenni, con lui abbiamo molti punti in comune ma, penso io, anche delle riflessioni più avanzate. Credo che, partendo da quanto abbiamo fatto in questi anni, e da una lettura critica di quanto scritto da Alinsky, sia possibile portare avanti la nostra riflessione, verso una “governance” delle risorse naturali che, finalmente, cominci a toccare gli interessi in gioco.
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