La crisi attuale sembra non aver fine. Al contrario, molti indicatori non solo restano sul rosso ma potrebbero anche peggiorare. Ecco perché il sentimento di paura attanaglia sempre di più la classe media, una parte della quale è emersa dal proletariato operaio e contadino non più di una o due generazioni fa.
Siamo usciti dalla seconda guerra mondiale in braghe di tela o, peggio, con le pezze al culo. L’avventura fascista aveva scritto nel suo DNA lo sfascio nel quale ridusse l’Italia, dopo aver portato violenze e quant’altro anche nelle spoglie dell’Impero. L’Italia pero aveva anche dell’altro da offrire: prima di tutto una resistenza multipartitica che aveva dimostrato come ci fossero forze fresche per battersi contro gli oppressori, interni ed esterni, ma anche una forza politica capace di far paura all’establishment moderato. Non era solo per il peso politico del partito comunista, ma anche per il legame esistente con quello che, in quegli anni, veniva ancora considerato come un possibile modello alternativo (dagli stessi economisti americani!), l’Unione Sovietica. Gli anni della ricostruzione si caratterizzarono quindi per un sostanziale equilibrio (o comunque un disequilibrio limitato) nella lotta fra il capitale e il lavoro. I diritti andavano conquistati uno per uno, con lotte anche dure e durissime. I governi dell’epoca, a parte sbandamenti temporanei come Tambroni, restavano su una linea democratica che, pur escludendo il PCI dal governo, lo faceva partecipe attraverso il dialogo sociale.
Si stava da una parte o dall’altra, ma poi quando si andava a discutere dei necessari miglioramenti societali, si trovavano accordi e, in caso contrario, la voce del popolo era chiamata ad esprimersi (referendum sul divorzio, sull’aborto). Forse conservatrici e parafasciste erano rimaste ben presenti nel mondo politico, economico e industriale, e continuavano a dominare il mondo militare nostrano. Vari tentativi di colpi di stato si susseguirono dal 1967 in poi, finché non ci pensarono i servizi segreti a immischiarsi nella nostra vita quotidiana. Erano lotte quasi impari, e tante sconfitte sono state portate a casa. Nel frattempo però lo statuto dei lavoratori venne approvato, i salari aumentavano e il livello di vita migliorava per tutti. Nuovi mercati vennero aperti a una serie di prodotti che facilitarono la vita di tutti i giorni, per cui anche il settore industriale trovo il suo beneficio in un processo che, rafforzando una classe media, permettesse loro di diventare anche clienti delle nuove mercanzie messe sul mercato.
Ognuno vedeva mezzogiorno davanti alla porta di casa sua, come dicono i francesi. Ciò non toglie che quando i terroristi delle brigate rosse e altri gruppi tentarono il rovesciamento delle istituzioni democratiche, il loro calcolo si dimostro completamente sballato, perché il patto sociale tra stato e cittadini reggeva, meglio di quanto pensassero loro e i loro strateghi.
Il 1989 porto alla fine dell’Unione Sovietica e con questo anche la fine di un contropotere al modello capitalistico che, nel frattempo, si era estremizzato con l’arrivo al potere di Reagan e la Thatcher. Da quel momento in poi comincia la lenta regressione della stagione dei diritti e la progressiva trasformazione del capitale industriale (fatto di beni materiali) in capitale finanziario (e quindi immateriale).
La classe media italiana (ed europea) ha cominciato a perdere colpi, e non si ricordano governi che abbiano posto chiaramente il problema nei suoi termini reali e abbiano cercato delle soluzioni coerenti con questo. Si sono cercate scappatoie, e la più grande è stata la creazione della comunità europea.
Va ricordato, come premessa a quanto segue, che l’invenzione dello stato moderno, alla fine del 1800, rispondeva fondamentalmente alla espansione dell’economia di mercato che non poteva più soddisfarsi degli angusti spazi locali che regioni e paesotti isolati fra loro potevano offrire. Il mercato necessitava spazi più grandi, e questo fu motore sufficiente per riscrivere la geografia mondiale. Il passaggio recente alla globalizzazione, che coincide con la finanziarizzazione e la concentrazione del potere anche industriale in mani sempre più ridotte, pone lo stesso problema di cent’anni prima: gli spazi nazionali sono troppo angusti, bisogna allargarsi. Il fatto che a dominare fosse l’economia (e chi la controlla) e non il sociale (o politico), spiega come mai l’avventura europea sia cominciata da accordi commerciali (carbone e acciaio), per finire col creare una unione dove quel che contava era l’apertura di mercati sempre più vasti al commercio, senza nessun bilanciamento in termini di diritti e doveri da parte dei contendenti.
La corsa a partire dai 6 paesi membri iniziali per arrivare ai 27 attuali trova qui la sua ragione d’essere. Non importa le diversità, quel che interessa è spianare la strada al capitale. Mettere in competizione sistemi di diritti diversi, senza un forte sostegno politico, voleva dire fin da subito, che avrebbero vinto quelli che avevano meno protezioni sociali e quindi meno costi per l’impresa.
Lo smantellamento dello stato sociale va avanti con il beneplacito ovvio dei governi di destra, ma senza che nessun governo di sinistra si sia realmente opposto a questo. Tutti i recenti trattati dell’Unione Europea sono figli di questa religione che, come vediamo bene, avvantaggia solo i grandi gruppi e qualche paese. Essendo il nostro un modello importato, dobbiamo guardare cosa ci porterà il futuro attraverso quel paese dove queste linee guida sono state promulgate e vengono messe al centro della loro politica da anni: ovviamente parliamo degli Stati Uniti.
Il principio chiave, ben ricordato dal Presidente Trump, è l’interesse centrale e unico degli Stati Uniti. Il modello deve quindi servire a loro innanzitutto. Il fatto che i loro economisti siano riusciti a far credere che questo modello economico andasse bene per il mondo intero, fa parte dei misteri della mente umana. Primus America. Quindi, la prima cosa da fare è controllare la moneta in circolazione, mettendola al servizio della politica. Loro hanno il dollaro, che serve come parte di una strategia coerente, che piaccia o meno, noi abbiamo copiato e inventato l’euro, una moneta che non ha nessuna forza politica dietro per cui non serve come elemento costituente di una strategia europea coerente.
Loro impongono regole, che fanno comodo alle loro imprese, e noi le copiamo, sperando di diventare più bravi e competitivi. Le loro regole continuano a privilegiare i taglia salariali, nessuna copertura sanitaria, il tutto in nome di un mito, del “farcela da solo” il self-made man. Noi, che avevamo una struttura sociale democratica, la distruggiamo per diventare neandertaliani come loro.
Di fatto accettiamo di giocare le partite in trasferta, con regole dettate da loro (o dai loro valletti, tipo l’organizzazione mondiale del commercio); in caso sia necessario, anche l’arbitro lo decidono loro.
Insomma, inseguirli su quel cammino non può che portarci all’inferno. La necessità di ripensare il patto sociale che lo stato e il settore capitalistico finanziario ha distrutto coscientemente, è la base di qualsiasi politica vogliamo per tirarci fuori dalla crisi. Vivendo a Bangkok abbiamo ancor più evidente, ogni giorno, cosa significhi la crisi ecologica, dato che respiriamo particelle inquinanti H24. Ma questo inquinamento è figlio dello stesso modello che ci hanno imposto. E ancora una volta abbiamo visto come sia stato declinato in Europa dai grandi costruttori automobilisti: truffare sui sistemi di misurazione in modo da poter inquinare ancor di più. Il tutto in nome del solito Dio profitto.
Quindi per tirarci fuori da questo casino, non è pensabile farlo all’interno del quadro di riferimento europeo attuale. Ben dice il candidato francese Melenchon che quei trattati vanno rivisti uno per uno e se non rispondono alle priorità sociali del suo paese, vanno aboliti. Abbiamo una moneta che così come è strutturata, senza un vero peso politico unitario dietro, non può resistere ancora per molto. E allora forse val la pena cominciare a porsi il problema. Voler uscire dall’euro come dicono alcuni va letto come una minaccia forte, ma credo necessaria oramai, per far capire che o si cambia danza o andiamo contro un muro. Se i nostri politici e i nostri rappresentanti a Bruxelles non capiscono l’urgenza di un cambio radicale nell’impostazione di questa unione europea, cominciando proprio dalla moneta, siamo finiti. Che sia Mario Draghi di fatto a fare la politica europea, attraverso i suoi interventi sul mercato, è un gran brutto segno. Non ce l’ho con Draghi, ma con chi non ha fatto il suo lavoro fin dall’inizio.
Ricostruire il patto sociale dal basso è compito arduo, anche perché nel frattempo la società ha talmente interiorizzato l’idea dell’auto sfruttamento, che rende l’individuo il centro e il terminale unico di tutte le politiche, il vero sogno della signora Thatcher: distruggere la società e far spazio all’individuo. Il futuro è scritto anche in quel senso li, e mi ritornano in mente quanto dettomi da un giovane giudice del sud del Parà, uno stato brasiliano fermo al medioevo: si parlava delle riduzioni in schiavitù di molti operai agricoli all’interno delle grandi piantagioni dei latifondisti brasiliani e uno di questi, di fronte alle critiche del giudice, che lo stava mettendo in prigione, gli rispose: “è lei caro giudice che non capisce, noi facciamo del bene a questa gente, diamo loro anche da mangiare”. Ecco a questo arriveremo, a dire grazie ai benefattori che riducono gli stipendi a livelli da fame, tagliano i servizi sociale, la scuola, la sanita pubblica…
Svegliamoci prima che sia troppo tardi…