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giovedì 30 novembre 2017

Summit Europa Africa: ancora una volta promesse che non potranno essere mantenute



Per la quinta volta la compagnia di giro si ritrova, questa volta in Costa d’Avorio, per mostrare quanto forte sia la preoccupazione degli europei nei confronti dell’Africa. Bene, bravi, applaudiamo e chiniamo la testa.

Teatro logoro, anche se questa volta c’era il nuovo Pinocchio francese che ha riempito di promesse peggio che se si credesse Babbo Natale.

Che l’Unione Europea cominci a sentire l’acqua che gli tocca il culo, è cosa assodata. L’equazione: più migranti uguale più voti all’estrema destra preoccupa molti paesi e molti governanti, ma soprattutto la solita cricca affaristica che nella “stabilità” garantita dai governi di grande coalizione trovano il terreno ideale per portare avanti i loro loschi affari.

Come al solito questi summit sono preparati in anticipo da una schiera di sherpa il cui unico interesse individuale è di farsi bello agli occhi del proprio padrone, per cui non uno solo di loro osa dire e scrivere e difendere le tesi che disturbano. In primis, come in tanti ci sforziamo di dire, nel mondo delle ONG, non certo nelle agenzie delle nazioni unite, il problema centrale delle terre e dell’acqua.

Il lento ma costante movimento in uscita dalle campagne africane ha una ragione di fondo che è legata a filo doppio alla volontà pervicacemente sostenuta dal mondo occidentale, di voler imporre dei sistemi di amministrazione fondiaria basati su codici (come quello napoleonico) estranei alle realtà locali. Il tutto per “modernizzare” ed “attirare” gli investimenti. I risultati ottenuti finora sono molto evidenti. Non riconoscere i vari sistemi di diritto consuetudinario e non farne la base per un sistema socialmente legittimo, ha aperto la porta a ogni sorta di avventurieri nascosti sotto bandiere di falso “investimento” e con l’unico risultato di aver cacciato via quantità immense di popolazioni rurali. Questo è un fenomeno partito da molto lontano, grazie alla benedizione della Banca Mondiale e di una schiera di intellettuali di terz’ordine ma titolati nelle grandi università occidentali; il tutto veniva a inserirsi sulla soperchieria coloniale di obbligare quei paesi a “specializzarsi” in produzioni che servivano solo a noi, paesi colonizzatori. Le grandi piantagioni di canna, di ananas, di caffè, cacao e tutto il resto hanno dato il la alla più grande e rapida distruzione di sistemi agrari millenari. Con l’accelerazione di questi ultimi decenni il messaggio che è arrivato nelle campagne è stato chiaro: dovete andarvene perché abbiamo bisogno noi delle vostre risorse.

Partiti nelle periferie urbane, ingrossate a dismisura, pian piano hanno iniziato una migrazione verso nord. Noi vediamo solo la punta dell’iceberg, che non potrà che aumentare nei prossimi anni dato che, da un lato, la demografia resta in crescita molto forte in quasi tutti i paesi africani e, dall’altro, l’assoluta incapacità delle nostre classi dirigente di capire che bisogna cambiare radicalmente il paradigma di sviluppo. Cacciare via i nefasti comandi della banca mondiale e azzerare quel mondo di intellettuali neoliberalismo che sognano di eliminare completamente le istituzioni democratiche per lasciar libero spazio al Dio mercato, spingere per dei cambi totali e radicali di classi dirigenti nei paesi africani (esattamente l’opposto di ciò che sta succedendo nello Zimbabwe) e promuovere quindi una filosofia che parta dalla loro storia e geografia. Riconoscere i diritti consuetudinari, riconoscere i diritti delle popolazioni pastorali, e accompagnarle nel loro sviluppo verso maggior democraticità interna in particolare nei confronti delle donne e dei più giovani.

Ovvio che tutto questo necessiterebbe una vera rivoluzione, che noi europei in promisi dovremmo fomentare. Una rivoluzione dal basso e contro gli interessi della finanza. Invece preferiamo far finta di nulla, occuparci dell’albero che ci nasconde la foresta.

Parliamo anzi blateriamo tanto sul problema dell’immigrazione: cose dette e stridette oramai da decenni, mentre una sana riflessione sulle cause profonde non viene portata avanti da nessuno. Quando abbiamo provato ad aprire quelle porte maledette, nella conferenza sulla riforma agraria e lo sviluppo rurale realizzata a Porto Alegre nel 2006, bastarono poche settimane per far sì che vari rappresentanti dell’unione europea, associati alla banca mondiale, facessero arrivare il messaggio ai piani alti della FAO che queste cose non s’avevano da dire e ancor meno da fare. La montagna partorì un topolino, delle direttrici volontarie che non hanno avuto assolutamente nessun impatto. La ruberia delle terre e dell’acqua continua, i vari landlord nazionali (politici, generali e quant’altro) e internazionali (fondi pensione, imprese private e pubbliche) non sono mai stati felici come adesso: privatizzano (a loro beneficio) le risorse e socializzano i costi, a carico della società e di quei poveracci a cui non resta altro che camminare e partire.

Ce ne fosse uno dei gaglioffi che ci governano che osasse spiegare quale sarebbe la teoria che hanno in mente per fermare questi (e i futuri) flussi in modo strutturale. A parte costruire barriere, magari sparargli come sognano quelli della Lega, non si sa cosa fare. Si discute di integrazione e di quote paese, mentre alla porta abbiamo flussi che saranno dieci e cento volte più grandi. Noi continuiamo a distruggere casa loro, ma la demografia ci dice che fra pochi decenni raddoppieranno, per cui saranno sempre di più a partire e, per ovvie ragioni geografiche, verranno qui.

Continuare ad appoggiare queste classi dirigenti vuol dire rendersi complice di questa distruzione di massa: il fatto che sia spalmata in lungo lasso di tempo non toglie che sia una distruzione di massa. Gli unici a trarne beneficio sono le grandi industrie (minerarie, petrolifere,…estrattive in genere) e tutti i parassiti che vivono delle mazzette estratte da quei forzieri. Tutto quel capitale viene poi riciclato dalla finanza internazionale, che ne studia ogni giorno una nuova per affondare ancor più rapidamente qui poveracci, l’ultima è l’idea (incredibilmente appoggiata dalle nazioni unite) di metterci sopra anche le assicurazioni private. Peggio che andar a giocare alle tre carte con quei tipi che girano negli autogrill: se uno pensa che un poveraccio del Malawi possa guadagnarci contro gli assicuratori europei tipo AXA e Allianz, allora vuol dire che crede ai miracoli. Io no, e mi batto contro tutto questo.


Stasera il circo di Abidjan chiude, ognuno è già partito a farsi fotografare con qualche start-up che crea lavoro per una-due persone e per far vedere che i nostri soldi servono a qualcosa. Finite le foto è ora di riprendere l’aereo. Si rientra più velocemente. Di sicuro più velocemente di sei poveracci che marciano a piedi. Ma ricordatevi, chi va piano va sano (magari non in questo caso) ma va lontano (anche se ne ammazzano tanti prima). Arriveranno, …. tenetelo a mente. Continuate a votare questi partiti e saprete di cosa diventata co-responsabili.

Ricetta Xuor facile: Ananas flambé



Tagliare la testa e la coda dell’ananas. Pelarlo e poi col coltello togliere gli occhi (foto 1)

Tagliarlo a fette di 7-8 mm e togliere la parte centrale più legnosa (foto 2)

Imburrare una pentola antiattacco (foto 3), 

metter dentro tutto l’ananas tagliato (foto 4)

Aggiungere un po’ di zucchero (3 cucchiaiate - dipende da quanto dolce è l’ananas) (foto 5)

E poi flamber con rhum oppure, non avendolo - come nel nostro caso, con Brandy Stravecchio (foto 6)


A quel punto potete mangiarvelo anche caldo, oppure se volete lasciarlo in frigo, anche la mattina dopo a colazione. Miamm!!!!

mercoledì 29 novembre 2017

Recette Xuor Tradition : Croque Monsieur

Recette Xuor Tradition : Croque Monsieur

Ingredienti:

Pane da toast (noi siamo passati al pane integrale, il gusto ci guadagna)
Sottilette
Prosciutto cotto (consigliato il Gran Biscotto)
Panna liquida
Groviera e parmigiano grattugiati
Pepe
Burro

Spalmare un po’ di burro sul pane (foto 1)

Disporre una sottiletta (o due, secondo i gusti) su ogni toast e successivamente il prosciutto (foto 2)

In una scodella mettere il formaggio grattugiato, aggiungendo parecchio pepe e la panna (foto 3)

Chiudere i toast (foto 4) 


e spalmare sopra la panna mescolata con il formaggio (foto 5)

Infornare a 180 gradi (noi mettiamo carta forno sulla teglia) per circa 15 minuti (meglio sorvegliare che non brucino…)


Per accompagnare, una insalatina verde…

lunedì 27 novembre 2017

2017 L47: Massimo Montanari - Il riposo della polpetta

Laterza, 2011

La cucina non è solo il luogo in cui si progettano sopravvivenza e piacere. La cucina è anche il luogo ideale per allenare la mente… Il riposo della polpetta è come il riposo dei pensieri: se aspetti un po’, vengono meglio.
Perché il pane è un simbolo di civiltà? Cosa può insegnarci la pasta sul rapporto tra forma e sostanza? Che cosa significa dividere le carni, e non poter dividere la minestra? Ricercare la ricetta perfetta è ideologicamente corretto? Le ricette di cucina hanno qualcosa in comune con le ricette del medico? Perché al barbecue cucinano sempre i maschi? I piccoli gesti della vita quotidiana hanno un senso quasi mai banale. Aiutano a riflettere su quello che accade ogni giorno intorno a noi, sul nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. «Un’idea a cui sono particolarmente affezionato», scrive Montanari, «è che le pratiche di cucina non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale e intellettuale. La cucina può così essere assunta come metafora della vita — a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina».
Dopo Camporesi, Montanari resta il migliore per raccontarci queste storie attorno al cibo.

domenica 26 novembre 2017

Un domani fatto di nulla



Già a maggio si cominciava a respirare aria di elezioni. La Repubblica, per mettere le mani avanti, individuò sei riforme da non tradire:

“Ci sono l'attesissima legge sul biotestamento; quella sulla cittadinanza, ferma al Senato dalla fine del 2015; l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura; l'approvazione del nuovo codice antimafia; la legalizzazione della cannabis e infine la riforma del processo penale.”

Siamo a fine novembre, legislatura agli sgoccioli e nessuna di queste riforme naviga in buone acque. Questo di fatto sarà il lascito di questo governo e della maggioranza (PD, Alfano, Verdini…) che l’appoggia. Un nulla che ha avuto la fortuna di incrociare una mini congiuntura internazionale favorevole per cui anche le previsioni di crescita nostrane sono passate al segno positivo. Messa da parte questa casualità, la navigazione continua a vista, con le consuete lotte interne ai vari partiti e movimenti e con la gente normale che oramai ne ha le tasche piene di questo sistema politico per cui, per il momento, si limita a disertare in maniera crescente gli appuntamenti elettorali, ma che in un prossimo domani potrebbe anche prendere derive di altro tipo.

Lo Stato latita a tutti i livelli, i servizi di base sono sempre più malmessi,  non parliamo dello stato delle infrastrutture pubbliche, delle non-ricostruzioni nelle zone dei terremoti, il disinvestimento nella scuola, insomma un panorama che ci porta ogni giorno di più ad avvicinarci a quei derelitti paesi dell’Est ex-sovietico. Chi ci sia stato in questi anni, fatte poche eccezioni in alcuni grandi centri, si è sempre portato a casa una impressione di fondo di un degrado tremendo, dentro un’architettura sovietica che schiaccia gli esseri umani, un disinteresse totale per qualsiasi cosa sia “comune”, e per una rabbia che senti crescere. Partiti e movimenti di estrema destra sono stati i più svelti a proporre di incanalare tutto questo dentro i soliti schemi razzisti. Un nemico grosso, facile da individuare e poco importa che sia colpevole di qualcosa o meno. Resta che l’operazione si sta dimostrando vincente, e tutto lascia pensare che l’estrema destra aumenterà ancora nei prossimi anni, fino a tornare al potere.

Da noi come al solito, figli e nipoti dell’esegeta con la gobba, si tira a campare. Come diceva il Gobbo di stato, sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia, ma qua i confini si fanno ogni giorno più labili.

In tanti fanno a gara per suggerire al PD e agli altri partiti e movimenti di sinistra quale sarebbe la strada maestra per evitare l’irrilevanza alla quale sembrano destinati. Pochi sembrano ricordare come il PD sia il partito dei 101 traditori che affondarono la candidatura Prodi alla presidenza della repubblica. Un partito, e un leader, imbevuti di narcisismo, senza più nessuna base di valori da difendere, e senza nessuna capacità vera di autocritica. Il treno, forse l’ultimo, che abbiamo visto passare e che avrebbe potuto portare a pensare dialogo e negoziazione di un altro tipo anche con i 5S, è passato al momento dell’ultima elezione del presidente. Qualcuno si ricorderà che i 5S avevano proposto Stefano Rodotà come candidato, una persona stimata da tutta la sinistra e non solo, che avrebbe potuto dare un senso e ridare credibilità a istituzioni sempre più latitanti. Il PD nemmeno per un momento pensò a fare un passo di lato, dicendo al suo candidato di lasciar spazio a Rodotà, grande vecchio del partito comunista e leader indiscusso di tutti quei movimenti che si rifacevano al tema dei beni comuni. Prodi volle giocarsela, così si chiusero tutte le porte possibili con i 5S, Rodotà venne tagliato fuori e con lui tutti quelli che ancora avevano una speranza di un futuro migliore.

Poi è andata come è andata, adesso ci ritroviamo Mattarella, Renzi che cerca di giocare le sue carte da dietro, l’MDP che se ne è andato e che cerca di rimettere in piedi i cocci di quella sinistra movimentata fuori dal PD. Pisapia non sa da che parte andare, ma insomma, è molto probabile che questi due blocchi, PD da un lato, con appoggio di una parte della destra (Alfano) e il MDP e alleati dall’altra, perderanno le elezioni ma soprattutto avranno dimostrato che con queste persone ai comandi non si può sperare altro. Grandi leader a sinistra non ce ne sono. In Francia per anni ci si trastullò con il gran rifiuto di Jacques Delors che a fine 1994 decise di rinunciare a correre per le presidenziali del 1995, poi vinte da Chirac. Il partito socialista non si rimise mai da quella scelta e abbiamo visto come è andata a finire quest’anno. 

In Italia avevamo avuto LA grande occasione quando Cofferati riuscì a portare 3 milioni e mezzo di italiani in piazza contro il governo Berlusconi nel 2002. Tutto il sindacato era con lui e molti dei quadri alti del Partito; insomma tutti aspettavano il gran salto, cioè la dichiarazione di andarsene dal PD per fondare il Partito del Lavoro. Cofferati non lo fece, e ancora oggi chi ha lavorato con lui si mangia le dita. Fu paura o cosa? Non lo sapremo, ma resta il fatto che persa quell’occasione siamo andati verso scelte sempre meno chiare trasformando un patrimonio di idee e valori in un feudo di galli disposti a tutto pur di far fuori gli altri. 

Persino l’Unione Europea, con un ritardo che molti commentatori oggi indicano di quasi trenta anni, si è finalmente accorta che sul tema africano bisogna fare qualcosa di diverso e di più forte. L’analogia è sempre il piano Marshall, vedremo (e torneremo a parlarne) nei prossimi giorni. Dicevo che persino l’UE ci arriva, mentre i nostri galli nostrani sono troppo impegnati per darsi battaglia che per avere tempo per studiare e dire qualcosa su questi temi internazionali.


Non ci resta che sperare che si acceleri il movimento di uscita generazionale, che si chiuda l’esperienza di questa sinistra incapace di pensare, sofferente di afasia e sempre più lontana. dal cuore delle gente comune.   

Ricetta Xuor: Terrine de sanglier

Terrine de sanglier

Autant de viande de sanglier que de porc (grosso modo 150-200 gr chaque) et la même quantité de poitrine fraiche.

Faire mijoter la viande de sanglier une nuit dans du vin rouge avec du laurier, oignon et carotte.

Passer tout au hachoir avec la grille fine, ajouter 10 cl de cognac et au moins 4 cuillères à soupe de la marinade, du thym, 2 grosses échalotes coupées finement, des morilles, un oeuf pour lier et on mélange le tout.

Sel: 12 gr par kilo de viande (attention une pas exagérer) 
Poivre: 3-4 gr par kilo

Test: tu mets un peu de mélange à cuire pour tester l’assaisonnement.

Mettre le tout dans une terrine (avec couvercle)  en céramique et faire cuire au four à bain marie pour 2 heures, 2,30.


Laisser refroidir, et ensuite au frigo pour 2-3 jours avant de la consommer.

sabato 25 novembre 2017

Chutney à l'oignon et aux marrons

A servir avec du fromage ou de la terrine

Ingrédients:
- 1 gros oignon (blanc)
- 150g de marrons
- 60g de sucre
- 150ml de vinaigre de cidre (ou de vin)
- 1 pincée abondante  de poivre noir
- 1 pincée de 4 épices (mélange Xuor: gingembre, cumin, graines de coriandre, très peu de cannelle, le tut passé au mortier)

1) Inciser les marrons et les faire cuire dans de l'eau bouillante pendant 20 minutes. Les égoutter puis les éplucher
2) Hacher l'oignon grossièrement et le faire suer dans une casserole avec un peu de beurre
3) Mettre les marrons, le sucre, le vinaigre et les épices dans la casserole et laisser mijoter 1 heure

Italiano:
1 cipolla grossa (bianca)
150 gr di marroni
60 gr di zucchero
150 ml di aceto (di vino)
pepe nero (abbondante)
mescola magica Xuor: zenzero, cumino, grani di senape e un po' di cannella, il tutto pestato nel mortaio)

Incidere i marroni e farli cuocere in acqua bollente per 20 minuti. Metterli dentro con l'acqua fredda). Spellarli dopo.
Tagliare la cipolla grossolanamente e farla "sudare" con un po' di burro i una casseruola, con coperchio e fuoco bassissimo. Attenzione che non attacchi, casomai aggiungere un po' d'acqua. La cipolla deve diventare tenera ma non rosolata.
A quel punto aggiungere i marroni, lo zucchero, l'aceto e le spezie nella casseruola e lasciar cuocere sempre a fuoco bassissimo per un'ora.

venerdì 24 novembre 2017

Torta ricotta e mele (in ricordo di mamma Alfrida)

questo dolce faceva parte del kit che mi ero preparato per il trasferimento a Parigi nella primavera 1985. L'ho riprovato dopo tantissimi anni e il risultato è sempre eccellente.

Pasta frolla:
250 gr farina (0, bio)
100-110 gr zucchero 
100-110 gr burro (aggiustare in funzione dei gusti)
1 uovo (poi dipende dalla pasta, a volte ho dovuto metterne due, ma con questa farina sembra che uno basti)
Aggiustare con un po’ d’acqua
1 presa sale

Sopra:
250 gr ricotta
due tuorli
1-2 mele (bio)
succo di un limone
1 bicchierino di rhum
30-40 gr zucchero

Fare la fontana con la farina, incorporare il sale, lo zucchero, il burro e l’uovo. Impastare velocemente e non lavorare troppo. Mettere a riposare in frigo (o altro luogo fresco), coperto con un tovagliolo.

Pelare la mela e tagliarla a fettine sottili, spruzzandole col succo di limone.
Passare al setaccio la ricotta (io uso il passaverdura), incorporare due tuorli (magari la prossima volta provo con uno solo), lo zucchero e il rhum. Montare con un cucchiaio di legno (ai tempi di mia mamma, magari adesso con una MarieLuise) in modo da renderlo cremoso.

Accendete il forno, in modo che sia caldo al momento di infornare.
Stendere la pasta frolla (io lo faccio direttamente sulla carta forno), poi spalmo sopra il composto a base di ricotta. Le fettine di mele vengono a corredo finale.


Inforno per 40’ circa, stasera vediamo.

Giudizio finale: ammazzete.... approvata

giovedì 23 novembre 2017

Genere, territorialità e sviluppo: dove siamo fermi e dove vorremmo andare



A mo’ di introduzione, riporto un paragrafo preso dal libro di Massimo Montanari “Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo”: nel linguaggio di Omero e dei greci antichi, “mangiatori di pane” è sinonimo di “uomini”, ma già nel Poema di Gilgamesh, un testo sumerico  del secondo millennio a.C., la civilizzazione dell’uomo selvatico viene fatta coincidere con il momento in cui egli non si limita più a consumare cibi e bevande disponibili in natura, come le erbe selvatiche, l’acqua o il latte, ma comincia a mangiare pane e a bere vino, pronti ‘artificiali’ di cui viene a conoscenza grazie a una donna che gliene fa dono: il mito riconosce dunque al sesso femminile una priorità nel processo di invenzione dell’agricoltura, della cottura e - in ultima analisi - della cucina.

Parto da questa affermazione per mettere subito in chiaro il punto d’arrivo finale di un percorso che è ancora lontano dal suo compimento.

Partiamo in senso inverso: sviluppo, territorialità e poi arriviamo a genere.

Il mio cammino intellettuale su questi temi è iniziato quando sono andato a studiare alla cattedra del prof. Mazoyer a Parigi. Si occupavano di agricoltura comparata, e già l’inizio mi pareva interessante,  e di sviluppo rurale. Si trattava di una Cattedra molto conosciuta in Francia e nel mondo francofono per l’approccio sistemico portato avanti dai professori che metteva assieme storia, geografia, politica, economia e analisi dettagliate dei sistemi produttivi giù fino agli attrezzi usati, il tutto chiedendosi sempre il perché delle cose.

Fu un’esperienza formatrice unica, che continuai successivamente col dottorato e che cominciai a mettere in pratica realmente a partire dal 1989 quando entrai a lavorare alla FAO. Ci misi un tempo ad adattare i principi fondamentali di questo approccio alle realtà concrete di un’organizzazione complessa come la FAO e soprattutto per adeguarli agli interventi che facevamo nei paesi. 

A mano a mano che il gruppo di persone con cui collaboravo, soprattutto (per non dire esclusivamente) esterne al mondo FAO, iniziava a riflettere su quanto facevamo, nel bene e nel male, cominciarono a venire fuori una serie di limiti, abbastanza facili da spiegare adesso, ma non così ovvi all’epoca. Si trattava di temi che erano assenti dalla riflessione (d’altronde il dilemma era e rimane sempre lo stesso: per chi opera sul terreno del fare, non è mai possibile dedicare tutto il tempo necessario all’analisi di tutte le variabili che si pensa siano importanti, per cui a un certo punto bisogna scegliere e priorizzare): da un lato il tema ambientale-ecologico e dall’altra la questione di genere o, se vogliamo prenderla più alla larga, l’importanza del ruolo degli attori locali nel fare e disfare gli spazi in cui vivevano ed operavano.

Pian piano mi divenne quindi chiaro che, al di là dei temi da aggiungere, la questione era più profonda. Non s risolveva dando maggior spazio a queste analisi, perché la pecca fondamentale risiedeva nel carattere profondamente verticale dell’approccio. Gli esperti di analisi dei sistemi agrari erano una specie di ayatollah (ovviamente sempre in lotta fra di loro) che capivano le dinamiche locali in tempi rapidi e indicavano le strade corrette da percorrere per migliorare le produttività agronomiche ed economiche di quei sistemi. Compito poi dei governi di trasformare queste indicazioni in politiche e programmi concreti. L’esperto quindi non entrava in un vero dialogo dei saperi, malgrado la pretesa retorica dell’approccio inclusivo, perché di fatto andava a visitare i villaggi, le aree produttive, a conoscere gli attrezzi, le produzioni etc. col solo scoop di estrarre quei dati che gli servivano per sintetizzare la rappresentazione grafica del sistema produttivo e quindi le possibili migliorie.

Sarà stato l’influsso di alcuni colleghi nel periodo di lavoro che trascorsi al Centro di Sviluppo dell’OCSE a Parigi,in particolare una sociologa oriunda dei Caraibi inglesi che da anni lavorava sultana gender, sta di fatto che cominciai a guardare la questione metodologica dell’approccio sistemico con occhi diversi. 

Arrivò quindi il momento di riflettere ai nostri limiti metodologici e quindi operativi, e per questo organizzai un seminario di lavoro in Venezuela nel 2001, dove invitai il gruppo di persone più vicine a questi temi e queste riflessioni. Lo scopo, dichiarato fin dall’introduzione, era di andare oltre gli insegnamenti del nostro maestro Mazoyer e per questo proposi il passaggio dal sistema agrario al concetto di territorio, inteso come una costruzione storica realizzata sauna serie di attori che vivono e/o dipendono dalle risorse disponibili in quegli spazi, che sono interessati ad accaparrarle per fini diversi, non necessariamente agrari e che, di conseguenza, vivono in una fase dinamica permanente che sfocia assai spesso in tensioni e conflitti.

Questo cambiamento era fondamentale, perché toglieva la centralità tecnica (dell’analisi economico del sistema produttivo, delle qualità dei suoli etc. etc. ) e ne introduceva un’altra, prioritaria: la centralità degli attori, nella loro diversità sociale, economica e culturale.

Restavamo nel mondo sistemico, ma non più agrario e ancor meno della pianificazione degli spazi agricoli (land use planning): a partire dal riconoscimento che erano gli attori a fare e disfare quei territori, bisognava quindi avvicinarsi a loro, capirne le logiche, gli interessi e le visioni che portavano avanti. Uscendo dal territorio sacro dell’agronomia, di fatto dicevamo chiaramente che non era più una questione solo per noi FAO, ma che anche altre agenzie ONU che lavoravano su altre dimensioni, urbane, culturali, industriali etc. etc. avevano un loro spazio di lavoro. Ma soprattutto, ponendo loro al centro, noi, gli esperti, perdevamo quell’aura di sapienti che dettavano dall’altro delle loro capacità di sintesi intellettuale, le ricette da portare avanti. Di fatto, stavamo anche dicendo che non credevamo molto alle politiche e programmi calati dall’alto perché già nei nostri paesi mediterranei, tra la teoria di uno stato forte e rispettato e una realtà fatta essenzialmente di compromessi, ci era chiara una cosa: doveva essere la realtà a dettarci gli elementi per l’analisi e non il contrario.

Potete immaginare che questo tipo di riflessioni, che andava, e va, esattamente al contrario del mainstream del mondo occidentale, fatto di grandi scuole che producono grandi specialisti che a loro volta spiegano ai poveracci dei governi del sud le loro ricette miracolose, ecco, noi e loro non eravamo fatti per capirci facilmente. 

Era ancora un’epoca in cui non parlavamo ad alta voce di diritti, di asimmetrie di potere, di ambiente e di genere. Questo perché la carne al fuoco era già parecchia, ed io l’unico funzionario fisso dentro l’organizzazione, per cui non potevamo dare tutte le battaglie allo stesso tempo. Una derivata quasi immediata di queste riflessioni fu la possibilità di cominciare a lavorare anche nei paesi in conflitto o post-conflitto. La ragione era chiara: i presupposti per un approccio tradizionale non c’erano più. Non c’era tempo e soldi per fare dotte analisi dei suoli, dei sistemi produttivi e quant’altro e non c’erano più governi capaci di “ordinare” il territorio. Quindi, per sottrazione, anche altri colleghi arrivarono alle nostre stesse conclusioni e cioè che bisognava partire dagli attori in gioco, capire chi fossero e cosa volessero. La conclusione ovvia, ancora una volta diametralmente opposta a quello che faceva la mia organizzazione, era che, dal nostro punto di vista, non poteva esserci una soluzione “ideale” per quei sistemi agrari, quei territori o quegli attori. Lo specialista esterno diventava quindi un qualcosa di diverso, più umile: facilitava dei processi di dialogo, dove poteva usare ancelle sue conoscenze, assieme a quelle di tanti altri, ma la soluzione, se soluzione c’era (il che non era ovvio), solo poteva nascere da quegli stessi attori che stavano litigando per quelle risorse.  Era il corollario ovvio di quanto detto prima. Se gi attori sono centrali nel fare e disfare, noi possiamo solo aiutare a trovare un percorso di convergenza che si traduca poi in atti concreti. Ma questa convergenza dovrà avere, più che una legittimità tecnica da parte dello specialista, una legittimità sociale data dagli attori stessi. Diventavano quindi “process oriented” e non più “results based”. Insomma, altre rogne, dato che, di fatto, remavamo contro.

Le baruffe interne, molte delle quali con i capi e direttori che ho avuto in questo lungo periodo, non son riuscite a farmi desistere, ma sicuramente hanno fatto perdere molto tempo a noi, alla FAO e soprattutto alle popolazioni che avevano bisogno di aiuto.

Dopo alcuni anni di lotte continue, riuscimmo ad aprire una prima riflessione sulla questione del genere e sul tema ambientale. Su quest'ultimo direi che abbiamo fatto un salto interessante, e la nostra proposta attuale (Greening the Negotiated Territorial Development Approach - GreeNTD) credo sia un documento valido per confrontarsi. A mano a mano che anche altri colleghi cominciavano a riconoscere l’importanza primordiale degli attori (soprattutto nel mondo variegato di quello che in FAO chiamiamo Emergenze), ho potuto spostare l’asse della lotta sul passo successivo. Riconoscere questa centralità era un messaggio inviato soprattutto a tutti quei colleghi che giuravano solo sulla centralità della scienza (economica, agronomica…) per cui l’esperto internazionale era sacro. Noi dicevamo loro che non era così semplice. Non che buttassimo via le scienze, caprina venivano le persone vere, in carne e ossa, con i loro desideri e tutto il resto. Chiarito questo, e prima di cadere nell’errore di catalogarci anche noi dentro gli antropocentristi, mi parse chiaro che dovevamo dirlo chiaro e forte come la pensavamo su questi temi: di fatto ricordavamo cose abbastanza ovvie, e cioè che abbiamo una sola Terra e che quindi dovevamo lavorare per cercare un equilibrio fra le necessità umane e quelle ambientali. Equilibri diversi in. funzione della scala del lavoro, degli attori coinvolti e dei tempi e risorse disponibili. Ma il metodo restava lo stesso: dialogo e negoziazione, umiltà nell’approccio, facilitare lo scambio di opinioni ed esperienze e usare il nostro residuo potere (come agenzia ONU) per provare ad intaccare le crescenti asimmetrie di potere che complicano qualsiasi ricerca di soluzioni durevoli per qualsiasi territorio vogliamo esaminare. 

Pian piano avevamo introdotto anche quest’altra componente, che ancor oggi, alla vigila della mia dipartita da questa FAO, resta quanto mai difficile da far accettare. Quello che sottintende il territorio degli attori sono delle logiche di potere, costruite nel tempo, che possono facilitare o inclusioni o esclusioni. Non interessarsi alle dinamiche di potere, per quanto nei limiti di quello che possiamo fare come agenzia ONU, significa rinunciare a voler cambiare qualcosa nelle strutture che hanno portato a questo disastro, umano ed ecologico. Ecco perché alla fine, a mano a mano che dicevo con voce sempre più alta che gran parte degli interventi in corso, nei vari settori di lavoro della FAO, dal momento che non vogliono sentir parlare di potere e delle sue dinamiche, cioè non vogliono provare a cambiarlo, di fatto sono diventati non più parte della soluzione, ma parte del problema. 

Capirete che dire queste cose in questi anni in FAO voleva dire andar a cercar rogne. E ovviamente le ho trovate, sotto forma di un esilio forzato a Bangkok (pur autorizzandomi in via eccezionale a continuare a lavorare sui paesi africani e medio orientali in conflitto, come facevo qui a Roma). Era chiaro che non eravamo fatti per intenderci e quindi ho deciso di uscirne fuori. La questione ambientale pian piano va avanti, grazie ai vari colleghi che adesso sono dentro l’organizzazione. Per quanto riguarda la questione del potere, devo aprire il tema genere.

La nostra prima pubblicazione congiunta, con la Divisione di Genere, risale a 5 anni fa. Pubblicammo un lavoro che voleva sintetizzare lo stato delle riflessioni metodologico-operative da parte nostra e da parte loro. Lo chiamammo IGETI (Improving Gender Equity in Territorial Issues). A giorni dovrebbe uscirne una versione più attualizzata (se i colleghi ella mia vecchia divisione non lo bloccheranno prima): versione più semplice e chiara, e dove cominciamo a metterci le paroline di potere e asimmetrie.

Il punto chiave è che la centralità degli attori nel fare e disfare i territori (o i landscape degli anglosassoni) ti obbliga a un certo punto ad accettare l’evidenza che questi attori sono diversi e con poteri diversi. Ma questa diversità non riguarda solo i senza terra e i landlords, ma va giù in profondità, all’interno del nucleo familiare e dei rapporti costruiti sui ruoli dell’uomo e della donna. Di fatto siamo ancora lontani dal cominciare ad esplorare seriamente questi temi, per non parlare poi dell’intersezionalità cara a mia figlia (per via del suo dottorato) e all’amica Carla Pagano a cui manderò questo documento. 

Montanari ce lo ricordava all'inizio: non possiamo continuare a fare finta che le questioni di genere, quando parliamo di agricoltura, sviluppo, siano un qualcosa che viene dopo. Al contrario, vengono prima. Da lì dobbiamo iniziare a riflettere.


Lancio questo messaggio a loro e a chi altri avesse tempo voglia di starci (Clara, Francesca, Francisco, Laura …?), perché abbiamo bisogno di spingere più avanti la riflessione così che sia possibile migliorare gli strumenti di intervento. Tutte voi avete ilio indirizzo privato, per cui se siete interessate, dopo la pausa natalizia potremmo cominciare a rifletterci. Un caro saluto.

Dedicata al cugino Giampaolo: Pasta sfoglia

Giampaolo ci ha lasciati, con un buco difficile da riempire. Con lui parlavo e scrivevo, di noi, dei nostri fratelli e sorelle, dei figli, della vita in generale. Insomma, una specie di fratello maggiore con cui mi sentivo in fase, molto di più che col fratello vero. Ma questo è un altro discorso.

Giampaolo amava molto cucinare. E così, in omaggio a lui, io e Christiane ci siamo lanciati a provare la pasta sfoglia, ricetta non facile da farsi.

Pasta sfoglia




occhio che è una pasta da lavorare a freddo -ha orrore del caldo

250 gr farina
1 presa di sale
1 cucchiaio di aceto di vino non troppo forte
100 ml di acqua ghiacciata
25 gr burro fuso
200 gr burro freddissimo

Preparazione:

Fare la fontana (se possibile sul marmo - serve un tavolo da lavoro freddo), incorporando il sale, l’aceto, l’acqua e il burro fuso (si scalda su un pentolino poi quando ha fuso si mette a bagnomaria il pentolino dentro una teglia di acqua fredda per farlo raffreddare). Mescolate il tutto con la punta delle dita di una mano, aggiustando o con farina o con acqua (freddissima). 

Quando la pasta è ben amalgamata lavorarla bene col polso finché diventa ben omogenea. Farne una palla, avvolgerla nella pellicola e metterla in frigo per un 2 ore.

Riprenderla e infarinare leggermente (dipende dalla farina, dal marmo, dall’umidità, io per esempio non ho infarinato perché era elastica al punto giusto e non si attaccava sul marmo). La stendo per fare un quadrato di circa 35-40 cm.

Mettere al centro il burro appena tirato fuori dal frigo. Il burro resta nella sua forma originale, a parallelepipedo. Metterci sopra la sua carta originale e battere forte col matterello in modo da ridurlo a una superficie di qualche millimetro (2-4). La pasta sotto deve avere abbastanza dai 4 lati per coprirlo. A quel punto richiudere i lembi piegandoli sopra il burro.

Se necessario infarinate ancora il piano. Stendere la pasta (senza farla girare, come faccio io di solito). Deve risultare un rettangolo di circa 70x40. A questo punto piegate i lembi inferiore e superiore in modo da ottenere tre strati. Fine del PRIMO GIRO.

Su consiglio di Xuor, la mettiamo 30 minuti in frigo!

 Importante: non sbagliare la direzione, quindi se avete finito il giro due piegando i lembi sopra e sotto in linea verticale rispetto al vostro corpo, ricordarsi che la prossima volta la pasta va ruotata di 90°

E adesso riprendiamo. Stendete la pasta (senza mai girarla), facendo solito rettangolo di prima, poi ripiegatela facendo tre strati. Ruotare la pasta di 90° e distendetele un'altra volta a rettangolo come prima, poi ripiegatela nello stesso modo in modo da fare i soliti tre strati. Questo è il SECONDO GIRO.
Fate un senso di riconoscimento (tipo una leggera pressione) per ricordare quanti giri avete fatto (vedi seconda foto...) e anche per ricordare il senso da cui riprendere la stesura al prossimo giro.

Avvolgete il panetto e mettetelo in frigo per 20-30 minuti a riposare.

La regola è di lasciarla raffreddare una mezz'oretta dopo ogni giro 

Riprendetela e rifate lo stesso lavoro altre due volte. 
Non capovolgetela mai (io avrei tendenza a farlo). Occhio se necessita di un po’ di farina. E’ possibile perché a mano a mano che la stendete il burro comincia a spalmarsi e a permeare la pasta per cui se esce in superficie la pasta si lega al marmo.

Dopo il quarto giro la pasta è pronta.

Noi ne abbiamo congelato la metà.

Il resto lo abbiamo lavorato per fare delle treccine al formaggio che vedete nella terza foto. La pasta va stesa sempre a rettangolo, spessore un paio di millimetri circa. Spennellarla con un tuorlo d’uovo e spalmarci sopra del parmigiano grattato (se vi piace potete mescolare anche del groviera).
Tagliare dei nastri da circa 8-10 cm e piegarli a vite per metterli poi su una teglia da forno con carta forno. Noi abbiamo spennellato anche la parte sotto e abbiamo aggiunto del formaggio anche lì (ne avevo grattugiato troppo!).


Vedremo cosa diranno gli ospiti stasera.

Risultato: la pasta è favolosa, metà l'abbiamo congelata, e le freccine sono state divorate. Un pensiero per te cugino.