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martedì 14 novembre 2017

Continuando le riflessioni sul perché le agenzie tecniche dell’ONU funzionino male e ottengano scarsi risultati: un aiuto dalla psicanalisi



La settimana scorsa Montesquieu aveva aiutato a spiegare uno dei problemi fondamentali (dal mio punto di vista) delle nostre agenzie e del perché ottengano risultati che lasciano perplessi vari paesi membri. Continuando sulla stessa scia, mi verrebbe da aggiungere una riflessione di un giornalista sullo stato della governance politica italiana, in particolare nei partiti di sinistra. Scrive Massimo Recalcati che l’accanimento  nella volontà governo che pretende di sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario; un ordine ottenuto con l’applicazione rigida del potere è peggio del male che vorrebbe curare. Ogni volta che l’ambizione umana cerca di realizzare un ordine senza disordine si scontra fatalmente con delle manifestazioni straripanti e anarchiche del disordine. Il governo giusto non è quello che persegue lo scopo di annullare l’ingovernabilità ma quello che la sa ospitare.

Penso a queste frasi avendo avuto nodosi osservare, nella mia ultratrentennale esperienza con organizzazioni internazionali come questa tendenza sia all’opera indipendentemente dal colore politico, genere o nazionalità di chi le guidi. L’idea comune sembra essere quella di comandare un esercito (ma senza un vero stato maggiore), per cui siano fondamentali ordini chiari, una verticale del potere non discutibile e obbedienza cieca dalle truppe che vanno periodicamente motivate.

In realtà il vulnus si nasconde proprio in questa necessità sentita periodicamente di dover motivate le truppe. Una necessità che nasce dal rendersi conto, anche se minimamente, che qualcosa non funziona giù in cantina e quindi che sia necessario fare degli esercizi di democrazia, di team building, per rimettere a posto le cose. Insomma, la tipica scorciatoia di chi non vuol fare sforzi per capire, soggiogati da un autismo che porta a disinteressarsi completamente dell’alterità, vista come un ostacolo al raggiungimento di obiettivi di “sviluppo”. 

Come abbiamo potuto constare di persona, questo modo di governance ha portato a un allontanamento progressivo e crescente fra chi comanda e chi dovrebbe ricevere l’assistenza tecnica che dovrete favorire lo sviluppo. Il gap è rappresentato da truppe sempre più demotivate, che non hanno chiaro quale sia la vera “mission” a parte consolidare il potere di chi sta sopra. Di conseguenza questo porta a comportamenti speculativi e individualistici, dove ognuno impara a pensare agli affari suoi, a non spaventare gli attori forti nei paesi dove lavora in modo da evitare possibili richiami all’ordine da parte della gerarchia. Nel breve periodo tutto sembra andare per il meglio. I governi (del sud) si dicono soddisfatti dato che l’assistenza tecnica non tocca mai i gangli del potere per cui, di fatto, non interessandosi ale crescenti asimmetrie di potere finisce con il rinforzarle, scopo precipuo delle classi politiche che controllano i paesi del sud, mentre all’interno, la gerarchia premia che fa questo tipo di operazioni cosmetiche, senza disturbare e criticare i piani superiori. Così facendo vengono veicolati verso l’alto solo messaggi positivi (una volta che mi capitò di preparare un brief per un direttore generale sulle nostre azioni in un paese africano, venni redarguito perché avevo osato mettere quello che funzionava ma anche i tanti troppi problemi che dovevamo affrontare, molti dei quali di origine interna: mi venne chiaramente detto che il direttore generale non era interessato alle cose negative e che bisognava dirgli solo le belle notizie. Chissà se era vero o se si trattasse di un filtro deciso a livello del Gabinetto del DG). Per chi lavora solo saltuariamente, o da poco tempo, all’interno di queste agenzie, non può ovviamente avere un rinculo storico per vedere quali siano gli effetti di medio e lungo termine, cosa che a me, dopo tutto questi decenni, sono abbastanza chiare. Continuando a fare i “piacioni” con i governi, perdiamo credibilità con le popolazioni locali che soffrono. Al non voler discutere mai dei problemi strutturali, si finisce col far passare il messaggio che noi stiamo dalla parte dei governi, quegli stessi che rubano molto e di più a quei poveracci che dovremmo aiutare. Per cui, col passare del tempo, diventiamo degli attori di teatro di serie B, ininfluenti sui grandi temi che agitano il mondo proprio perché, invece di aver agito con coerenza e determinazione, alla fine ci siamo adagiati a fare quello che i capi volevano, e basta. Alla lunga questo si traduce, molto poco prosaicamente, in meno soldi ricevuti dai paesi donatori e in un sentimento di pochezza che viene ricordato sempre più spesso nelle riunioni confidenziali con questi stessi donatori.

Usando l’analogia dell’esercito, bisognerebbe ricordarsi come anche uno dei più grandi condottieri degli ultimi secoli, Napoleone Bonaparte, andò incontro a sconfitte cocenti proprio per non aver voluto e saputo ascoltare i consigli del suo stato maggiore. Eliminare le fonti del dissenso, anzi, del pensiero diverso, manda dei segnali chiarissimi a tutti: state zitti e fate quel che vi viene chiesto. In quel modo la capacità di iniziativa viene sopita e pian piano si spegne. Si attendono ordini da sopra, che verranno eseguiti con una attenzione meticolosa non tanto per avere degli impatti reali sul terreno, ma per far piacere a chi comanda. Ecco quindi l’attenzione spasmodica a quella forma di comunicazione che tutte le agenzie hanno sviluppato, autoreferenziale e tendente alle casse di risonanza del potere supremo che nessuno legge più.  Si fanno sforzi enormi per trovare delle “buone pratiche” che mostrino quanto bravi siamo (nel non toccare i gangli del potere), sperando che qualche innovazione superficiale cambi per magia il corso degli eventi. Ci specializziamo a gestire l’informazione (knowledge management), con l’unico risultato di non renderci conto di essere come il criceto che corre in gabbia. Si può anche accelerare, ma sempre in gabbia si resta.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che tutto questo fosse solo colpa di chi sta in alto nella piramide. Il primo e principale responsabile va individuato all’interno dei meccanismi selettivi che portano una persona piuttosto che un'altra ad arrivare a quel posto. In fin dei conti sono i paesi membri a decidere che profili di direttori generali vogliono alla testa di queste agenzie, con che programmi e con che valori da portare avanti. Va anche ricordato poi che questo tipo di governance trova tanti adepti, soprattutto nei piani intermedi della burocrazia gerarchica: questo modo verticale e senza spazio per il pensiero diverso permette a tanti capi e direttori di ritagliarsi degli spazi personali, praticamente fuori da ogni controllo, dove possono operare come meglio credono in cambio del mantenimento dell’ordine verticale e della promozione del sistema di comando di cui sopra. 

Anni, o decenni fa, un assistente direttore generale, tedesco, che era arrivato fin lassù avendo cominciato la carriera in cantina come esperto associato e che non si era ancora dimenticato delle sue origini, venne redarguito per iscritto da parte del Gabinetto del direttore generale perché prendeva dei caffè con dei giovani esperti associati del suo paese. Gli venne detto che per il decoro aziendale questo non andava bene. La classe dirigente non si mischia col popolino. Oggi queste pratiche non esistono più, resta il fatto che vi parlo non di cento anni fa, ma di una ventina o anche meno, insomma, l’altro ieri.

Che futuro si prospetta davanti a noi: beh mi sembra abbastanza ovvio, se non si cambia la forma mentis, non si cambiano i profili dei managers, se non si capisce la necessità di costruire una governance interna basata sulla vera promozione della diversità, pare difficile che si riesca a trovare modo di motivare sul serio le truppe. Pensare a uno stile diverso, basato sull’alterità, sull’andare verso l’altro, cioè cercare di eliminare le gelosie tra agenzie che sono il prodotto ovvio di aver messo alle loro teste delle persone che pensano solo in verticale, ecco, questi sarebbero i passi ovvi, necessari ma non sufficienti, per iniziare un vero cambio. 


Necessari ma non sufficienti perché poi verrebbe il problema sempiterno di cosa vogliamo che le agenzie delle nazioni unite facciano quando operano nei paesi membri. Quali margini di libertà ci sono di fronte a violazioni fragranti dei diritti più elementari, insomma continuare a chiudere gli occhi o cominciare ad aprirli, anche con tutta la diplomazia del caso? Il mio parere è conosciuto. Se continuiamo sulla strada attuale penso siano destinate all’irrilevanza quasi totale per quanto riguarda lo sviluppo. Continueranno ad essere utili per promuovere gli interessi dei grandi gruppi e dei grandi centri di potere, attraverso meccanismi come il Codex Alimentarius o simili, ma pensare che si possa realmente lottare con un minimo di efficacia contro la povertà e la fame (vera, ma anche quella culturale), contro il non rispetto dei diritti dell’infanzia etc. con queste strutture figlie di un periodo storico ultrapassato, beh, direi che è meglio toglierci questo sogno una volta per tutte.

1 commento:

  1. Caro Paolo,

    come sempre leggere le tue parole calma la mia anima, mi fa sentire più leggera nel levarmi quel senso pesante di inadaguatezza che spesso provo quando, nel dire cose simili alle tue ma senza la stessa lucidità e probabilmente la stessa incrollabile fiducia nel futuro, mi viene detto che sono negativa, cinica e in ultima istanza ipocrita (sputi nel piatto in cui mangi?).
    Tu dici: " In fin dei conti sono i paesi membri a decidere che profili di direttori generali vogliono alla testa di queste agenzie, con che programmi e con che valori da portare avanti". E la mia domanda è: crediamo sia casuale? O risponda a un intendimento ben preciso?
    Quando mi rispondo provo un disagio sempre più intollerabile tra quello che credevo da giovane, quello che volevo almeno cercare di essere, e quello in cui mi trovo a vivere oggi (e questo vale a più livelli e situazioni di vita, d'altra parte). E così, nonostante l'ansia a volte prenda il sopravvento, mi dico che è una fortuna essere probabilmente "in scadenza".
    Come quando un amore che andava male ti lascia e provi quel senso di liberazione che finalmente tu non debba più avere paura che lo faccia. E sai che ci sono altre persone, tante, intorno a te, che ti staranno vicino.
    Ciao!

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