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giovedì 23 novembre 2017

Genere, territorialità e sviluppo: dove siamo fermi e dove vorremmo andare



A mo’ di introduzione, riporto un paragrafo preso dal libro di Massimo Montanari “Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo”: nel linguaggio di Omero e dei greci antichi, “mangiatori di pane” è sinonimo di “uomini”, ma già nel Poema di Gilgamesh, un testo sumerico  del secondo millennio a.C., la civilizzazione dell’uomo selvatico viene fatta coincidere con il momento in cui egli non si limita più a consumare cibi e bevande disponibili in natura, come le erbe selvatiche, l’acqua o il latte, ma comincia a mangiare pane e a bere vino, pronti ‘artificiali’ di cui viene a conoscenza grazie a una donna che gliene fa dono: il mito riconosce dunque al sesso femminile una priorità nel processo di invenzione dell’agricoltura, della cottura e - in ultima analisi - della cucina.

Parto da questa affermazione per mettere subito in chiaro il punto d’arrivo finale di un percorso che è ancora lontano dal suo compimento.

Partiamo in senso inverso: sviluppo, territorialità e poi arriviamo a genere.

Il mio cammino intellettuale su questi temi è iniziato quando sono andato a studiare alla cattedra del prof. Mazoyer a Parigi. Si occupavano di agricoltura comparata, e già l’inizio mi pareva interessante,  e di sviluppo rurale. Si trattava di una Cattedra molto conosciuta in Francia e nel mondo francofono per l’approccio sistemico portato avanti dai professori che metteva assieme storia, geografia, politica, economia e analisi dettagliate dei sistemi produttivi giù fino agli attrezzi usati, il tutto chiedendosi sempre il perché delle cose.

Fu un’esperienza formatrice unica, che continuai successivamente col dottorato e che cominciai a mettere in pratica realmente a partire dal 1989 quando entrai a lavorare alla FAO. Ci misi un tempo ad adattare i principi fondamentali di questo approccio alle realtà concrete di un’organizzazione complessa come la FAO e soprattutto per adeguarli agli interventi che facevamo nei paesi. 

A mano a mano che il gruppo di persone con cui collaboravo, soprattutto (per non dire esclusivamente) esterne al mondo FAO, iniziava a riflettere su quanto facevamo, nel bene e nel male, cominciarono a venire fuori una serie di limiti, abbastanza facili da spiegare adesso, ma non così ovvi all’epoca. Si trattava di temi che erano assenti dalla riflessione (d’altronde il dilemma era e rimane sempre lo stesso: per chi opera sul terreno del fare, non è mai possibile dedicare tutto il tempo necessario all’analisi di tutte le variabili che si pensa siano importanti, per cui a un certo punto bisogna scegliere e priorizzare): da un lato il tema ambientale-ecologico e dall’altra la questione di genere o, se vogliamo prenderla più alla larga, l’importanza del ruolo degli attori locali nel fare e disfare gli spazi in cui vivevano ed operavano.

Pian piano mi divenne quindi chiaro che, al di là dei temi da aggiungere, la questione era più profonda. Non s risolveva dando maggior spazio a queste analisi, perché la pecca fondamentale risiedeva nel carattere profondamente verticale dell’approccio. Gli esperti di analisi dei sistemi agrari erano una specie di ayatollah (ovviamente sempre in lotta fra di loro) che capivano le dinamiche locali in tempi rapidi e indicavano le strade corrette da percorrere per migliorare le produttività agronomiche ed economiche di quei sistemi. Compito poi dei governi di trasformare queste indicazioni in politiche e programmi concreti. L’esperto quindi non entrava in un vero dialogo dei saperi, malgrado la pretesa retorica dell’approccio inclusivo, perché di fatto andava a visitare i villaggi, le aree produttive, a conoscere gli attrezzi, le produzioni etc. col solo scoop di estrarre quei dati che gli servivano per sintetizzare la rappresentazione grafica del sistema produttivo e quindi le possibili migliorie.

Sarà stato l’influsso di alcuni colleghi nel periodo di lavoro che trascorsi al Centro di Sviluppo dell’OCSE a Parigi,in particolare una sociologa oriunda dei Caraibi inglesi che da anni lavorava sultana gender, sta di fatto che cominciai a guardare la questione metodologica dell’approccio sistemico con occhi diversi. 

Arrivò quindi il momento di riflettere ai nostri limiti metodologici e quindi operativi, e per questo organizzai un seminario di lavoro in Venezuela nel 2001, dove invitai il gruppo di persone più vicine a questi temi e queste riflessioni. Lo scopo, dichiarato fin dall’introduzione, era di andare oltre gli insegnamenti del nostro maestro Mazoyer e per questo proposi il passaggio dal sistema agrario al concetto di territorio, inteso come una costruzione storica realizzata sauna serie di attori che vivono e/o dipendono dalle risorse disponibili in quegli spazi, che sono interessati ad accaparrarle per fini diversi, non necessariamente agrari e che, di conseguenza, vivono in una fase dinamica permanente che sfocia assai spesso in tensioni e conflitti.

Questo cambiamento era fondamentale, perché toglieva la centralità tecnica (dell’analisi economico del sistema produttivo, delle qualità dei suoli etc. etc. ) e ne introduceva un’altra, prioritaria: la centralità degli attori, nella loro diversità sociale, economica e culturale.

Restavamo nel mondo sistemico, ma non più agrario e ancor meno della pianificazione degli spazi agricoli (land use planning): a partire dal riconoscimento che erano gli attori a fare e disfare quei territori, bisognava quindi avvicinarsi a loro, capirne le logiche, gli interessi e le visioni che portavano avanti. Uscendo dal territorio sacro dell’agronomia, di fatto dicevamo chiaramente che non era più una questione solo per noi FAO, ma che anche altre agenzie ONU che lavoravano su altre dimensioni, urbane, culturali, industriali etc. etc. avevano un loro spazio di lavoro. Ma soprattutto, ponendo loro al centro, noi, gli esperti, perdevamo quell’aura di sapienti che dettavano dall’altro delle loro capacità di sintesi intellettuale, le ricette da portare avanti. Di fatto, stavamo anche dicendo che non credevamo molto alle politiche e programmi calati dall’alto perché già nei nostri paesi mediterranei, tra la teoria di uno stato forte e rispettato e una realtà fatta essenzialmente di compromessi, ci era chiara una cosa: doveva essere la realtà a dettarci gli elementi per l’analisi e non il contrario.

Potete immaginare che questo tipo di riflessioni, che andava, e va, esattamente al contrario del mainstream del mondo occidentale, fatto di grandi scuole che producono grandi specialisti che a loro volta spiegano ai poveracci dei governi del sud le loro ricette miracolose, ecco, noi e loro non eravamo fatti per capirci facilmente. 

Era ancora un’epoca in cui non parlavamo ad alta voce di diritti, di asimmetrie di potere, di ambiente e di genere. Questo perché la carne al fuoco era già parecchia, ed io l’unico funzionario fisso dentro l’organizzazione, per cui non potevamo dare tutte le battaglie allo stesso tempo. Una derivata quasi immediata di queste riflessioni fu la possibilità di cominciare a lavorare anche nei paesi in conflitto o post-conflitto. La ragione era chiara: i presupposti per un approccio tradizionale non c’erano più. Non c’era tempo e soldi per fare dotte analisi dei suoli, dei sistemi produttivi e quant’altro e non c’erano più governi capaci di “ordinare” il territorio. Quindi, per sottrazione, anche altri colleghi arrivarono alle nostre stesse conclusioni e cioè che bisognava partire dagli attori in gioco, capire chi fossero e cosa volessero. La conclusione ovvia, ancora una volta diametralmente opposta a quello che faceva la mia organizzazione, era che, dal nostro punto di vista, non poteva esserci una soluzione “ideale” per quei sistemi agrari, quei territori o quegli attori. Lo specialista esterno diventava quindi un qualcosa di diverso, più umile: facilitava dei processi di dialogo, dove poteva usare ancelle sue conoscenze, assieme a quelle di tanti altri, ma la soluzione, se soluzione c’era (il che non era ovvio), solo poteva nascere da quegli stessi attori che stavano litigando per quelle risorse.  Era il corollario ovvio di quanto detto prima. Se gi attori sono centrali nel fare e disfare, noi possiamo solo aiutare a trovare un percorso di convergenza che si traduca poi in atti concreti. Ma questa convergenza dovrà avere, più che una legittimità tecnica da parte dello specialista, una legittimità sociale data dagli attori stessi. Diventavano quindi “process oriented” e non più “results based”. Insomma, altre rogne, dato che, di fatto, remavamo contro.

Le baruffe interne, molte delle quali con i capi e direttori che ho avuto in questo lungo periodo, non son riuscite a farmi desistere, ma sicuramente hanno fatto perdere molto tempo a noi, alla FAO e soprattutto alle popolazioni che avevano bisogno di aiuto.

Dopo alcuni anni di lotte continue, riuscimmo ad aprire una prima riflessione sulla questione del genere e sul tema ambientale. Su quest'ultimo direi che abbiamo fatto un salto interessante, e la nostra proposta attuale (Greening the Negotiated Territorial Development Approach - GreeNTD) credo sia un documento valido per confrontarsi. A mano a mano che anche altri colleghi cominciavano a riconoscere l’importanza primordiale degli attori (soprattutto nel mondo variegato di quello che in FAO chiamiamo Emergenze), ho potuto spostare l’asse della lotta sul passo successivo. Riconoscere questa centralità era un messaggio inviato soprattutto a tutti quei colleghi che giuravano solo sulla centralità della scienza (economica, agronomica…) per cui l’esperto internazionale era sacro. Noi dicevamo loro che non era così semplice. Non che buttassimo via le scienze, caprina venivano le persone vere, in carne e ossa, con i loro desideri e tutto il resto. Chiarito questo, e prima di cadere nell’errore di catalogarci anche noi dentro gli antropocentristi, mi parse chiaro che dovevamo dirlo chiaro e forte come la pensavamo su questi temi: di fatto ricordavamo cose abbastanza ovvie, e cioè che abbiamo una sola Terra e che quindi dovevamo lavorare per cercare un equilibrio fra le necessità umane e quelle ambientali. Equilibri diversi in. funzione della scala del lavoro, degli attori coinvolti e dei tempi e risorse disponibili. Ma il metodo restava lo stesso: dialogo e negoziazione, umiltà nell’approccio, facilitare lo scambio di opinioni ed esperienze e usare il nostro residuo potere (come agenzia ONU) per provare ad intaccare le crescenti asimmetrie di potere che complicano qualsiasi ricerca di soluzioni durevoli per qualsiasi territorio vogliamo esaminare. 

Pian piano avevamo introdotto anche quest’altra componente, che ancor oggi, alla vigila della mia dipartita da questa FAO, resta quanto mai difficile da far accettare. Quello che sottintende il territorio degli attori sono delle logiche di potere, costruite nel tempo, che possono facilitare o inclusioni o esclusioni. Non interessarsi alle dinamiche di potere, per quanto nei limiti di quello che possiamo fare come agenzia ONU, significa rinunciare a voler cambiare qualcosa nelle strutture che hanno portato a questo disastro, umano ed ecologico. Ecco perché alla fine, a mano a mano che dicevo con voce sempre più alta che gran parte degli interventi in corso, nei vari settori di lavoro della FAO, dal momento che non vogliono sentir parlare di potere e delle sue dinamiche, cioè non vogliono provare a cambiarlo, di fatto sono diventati non più parte della soluzione, ma parte del problema. 

Capirete che dire queste cose in questi anni in FAO voleva dire andar a cercar rogne. E ovviamente le ho trovate, sotto forma di un esilio forzato a Bangkok (pur autorizzandomi in via eccezionale a continuare a lavorare sui paesi africani e medio orientali in conflitto, come facevo qui a Roma). Era chiaro che non eravamo fatti per intenderci e quindi ho deciso di uscirne fuori. La questione ambientale pian piano va avanti, grazie ai vari colleghi che adesso sono dentro l’organizzazione. Per quanto riguarda la questione del potere, devo aprire il tema genere.

La nostra prima pubblicazione congiunta, con la Divisione di Genere, risale a 5 anni fa. Pubblicammo un lavoro che voleva sintetizzare lo stato delle riflessioni metodologico-operative da parte nostra e da parte loro. Lo chiamammo IGETI (Improving Gender Equity in Territorial Issues). A giorni dovrebbe uscirne una versione più attualizzata (se i colleghi ella mia vecchia divisione non lo bloccheranno prima): versione più semplice e chiara, e dove cominciamo a metterci le paroline di potere e asimmetrie.

Il punto chiave è che la centralità degli attori nel fare e disfare i territori (o i landscape degli anglosassoni) ti obbliga a un certo punto ad accettare l’evidenza che questi attori sono diversi e con poteri diversi. Ma questa diversità non riguarda solo i senza terra e i landlords, ma va giù in profondità, all’interno del nucleo familiare e dei rapporti costruiti sui ruoli dell’uomo e della donna. Di fatto siamo ancora lontani dal cominciare ad esplorare seriamente questi temi, per non parlare poi dell’intersezionalità cara a mia figlia (per via del suo dottorato) e all’amica Carla Pagano a cui manderò questo documento. 

Montanari ce lo ricordava all'inizio: non possiamo continuare a fare finta che le questioni di genere, quando parliamo di agricoltura, sviluppo, siano un qualcosa che viene dopo. Al contrario, vengono prima. Da lì dobbiamo iniziare a riflettere.


Lancio questo messaggio a loro e a chi altri avesse tempo voglia di starci (Clara, Francesca, Francisco, Laura …?), perché abbiamo bisogno di spingere più avanti la riflessione così che sia possibile migliorare gli strumenti di intervento. Tutte voi avete ilio indirizzo privato, per cui se siete interessate, dopo la pausa natalizia potremmo cominciare a rifletterci. Un caro saluto.

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