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venerdì 10 novembre 2017

Montesquieu: De l’’esprit des lois



“ C'est une expérience éternelle que tout homme qui a du pouvoir est porté à en abuser (...) Pour qu'on ne puisse abuser du pouvoir, il faut que, par la disposition des choses, le pouvoir arrête le pouvoir ”

Perché queste parole riportate oggi da un Michela Marzano in un interessante articolo sulla Repubblica mi hanno fatto pensare? Per la ragione semplice che ho passato 28 anni in una organizzazione dove, da molti anni oramai, si è diffusa, a partire dai piani alti, la falsa idea che le relazioni umane e quindi quelle professionali, siano al fondo perfettamente simmetriche, o comunque dentro livelli accettabili di asimmetria.

La mia generazione, che se ne sta andando - o è mandata a casa - ha potuto constatare, per alcun di noi sulla nostra pelle, la retorica buonista dei nostri capi ai vari livelli, dal più basso al più alto, per mostrare un’immagine di “squadra”, mossa dagli stessi ideali e protesa al raggiungimento di quegli obiettivi di lotta alla fame e alla povertà che sono iscritti nel DNA dell’organizzazione.

Io ho avuto modo di iniziare durante il regno di un direttore generale libanese che ovviamente non aveva mai letto Montesquieu e al quale non fregava minimamente dell’idea della partecipazione. Comandava lui e basta. Era arrivato al potere verso i primi anni 70, dopo aver espletato in precedenza altri ruoli dirigenziali a livello più basso. Insomma, un puro prodotto della cultura del dopoguerra. Con il vento nuovo che arrivò con il suo successore, entrarono tutti gli spifferi della “partecipazione”, del “lottiamo assieme” e del fare squadra. Vennero ingaggiati nuovi dirigenti, alcuni dei quali, come fu il caso del direttore messicano che mi toccò in sorte, oriundi di una cultura  sinistrorsa pericolosa per loro e per gli altri; maoisti o robe del genere, capaci dietro a frasi fumose del lavorare assieme e dei grandi ideali, di nascondere un appetito vorace di potere per il solo piacere di averlo.

Fu in quel periodo che il gap fra quello che la nostra organizzazione poteva e quello che faceva in realtà comincio ad ampliarsi a livelli pericolosi. Il mondo cambiava, la ricerca di nuovi modelli di gestione, anche impresariale, cominciavano a far luce in molti settori economici. Appariva chiaro a molti che il verticismo, quello che oggi viene criticato in Putin, era sempre meno presentabile, e questo per una ragione semplice: non mobilitava le truppe. Ci si rendeva conto del valore intrinseco che la forza lavoro di una impresa era un vero e proprio capitale sociale e che se si voleva sperare di raggiungere gli obiettivi prefissati, bisognava che questo capitale fosse mobilizzato in qualche modo. Ceteris paribus è la stessa discussione che portò, anni dopo, De Sono a promuovere le sue tesi sul capitale immobilizzato per la mancanza di sistemi amministrativi efficaci, per cui ripartendo ds questi ultimi si sarebbe potuto immettere sul mercato un capitale enorme che avrebbe beneficiato in primis i poveri degli slum urbani del sud del mondo.

Nel caso nostro, viene da pensare che queste riflessioni non abbiano mai passato le porte di via Caracalla. Il sentimento di essere delle pedine giocate un po’ a caso dai dirigenti dell’epoca cominciò a diffondersi. Nessun sforzo reale venne fatto per riorganizzare il lavoro su basi più democratiche, anzi, successe esattamente la stessa confusione alla quale assistemmo, sempre in quegli anni, attorno al concetto di decentralizzazione. Fu una deconcentrazione, anche all’interno della FAO, ma mai una vera decentralizzazione, perché i bottoni decisionali restavano saldamente nelle mani di chi stava in alto nella piramide. 

Capita l’antifona, anche i livelli bassi della scala dirigenziale, capi servizio e direttori, si organizzarono per farsi gli affari loro, aumentando ancor di più l’opacità nell’uso di risorse che si stavano facendo sempre più scarse.

Questo trend è andato avanti, in peggio, fino ai giorni nostri. L’aumento della retorica, un po’ in stile politburo, attorno alla “nostra visione comune”, l’insistenza perché dei gruppi di lavoro trasversali si organizzassero per discutere le attività e il budget, idee vecchie che venivano pari pari da quanto il vecchio direttore messicano aveva promosso venti anni prima senza mai condividere realmente né il potere decisionale né i soldi, fecero si che allora come adesso, solo le giovani leve, ignare della storia dell’organizzazione, potessero vedere in queste proposte un qualcosa di innovativo. Chi, come me ed altri, aveva già vissuto quelle illusioni a metà degli anni 90, era molto scettico, e la storia ci ha dato ragione.

Il sistema di contropoteri non è mai riuscito ad installarsi ed oggi siamo fermi allo stesso problema ereditato dal primo direttore generale africano: un capitale umano interno che si sente usato, defraudato di quel capitale di conoscenze che tanti anni di lavoro permettono di accumulare, di essere preso in giro da una retorica che non prende più.


La necessità basica che Montesquieu indicava, la ricerca del bilanciamento dei poteri, si scontra con una cultura storica, voluta dai paesi membri, che se non fosse così, avrebbero discusso, preso provvedimenti, indicato strade diverse. Non lo hanno fatto, perché alla fine vien da pensare che tutti trovassero il loro piccolo tornaconto. Quello che non si è voluto vedere è che un potere sbilanciato, al di là delle scelte che vengano fatte in alto, porta con sé il disincanto della truppa. E questo è sempre più difficile da invertire. Il futuro che si presenta per chi resterà a lavorarci, non è certo roseo. Si nasconde la polvere sotto il tappeto, ma come qualsiasi massaia (donna o uomo) ben sa, la pulizia vera non si fa in quel modo e se ci fosse ancora voglia di far sì che questa organizzazione serva a qualcosa, e voi che mi leggete siete che faccio parte degli ingenui che continuano a crederci, ben altri cambi sarebbero necessari. 

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