Visualizzazioni totali

domenica 30 maggio 2010

Ecuador: sospesa la Ley de Aguas

Vittoria storica per il movimento indigeno
Ecuador: sospesa la Ley de Aguas
Marcia indietro (momentanea?) del presidente Correa
23 maggio 2010 - David Lifodi
Non hanno mai mollato e ce l'hanno fatta. Hanno resistito di fronte all'intervento della polizia, agli insulti, al tentativo di denigrare la loro protesta (è finanziata dall'esterno del paese, hanno detto) e adesso rilanciano. Il movimento indigeno dell'Ecuador ha ottenuto una vittoria storica, come ha scritto il portale Servindi, uno dei più competenti e aggiornati per quanto riguarda il mondo indio: la Ley de Aguas è stata sospesa. "Per il governo non è una priorità" ha spiegato il presidente Rafael Correa con una marcia indietro tanto repentina quanto inaspettata. E adesso gli indigeni non si fermano: chiedono una consultazione pre-legislativa sulla legge stessa. Alla base del successo sta l'assunto da mesi ripetuto dalla Conaie: gli indigeni rappresentano circa un terzo dei quindici milioni del paese, quindi hanno il diritto di essere consultati. La Corte Costituzionale ha stabilito che i popoli indigeni dovranno essere consultati prima dell'approvazione della legge tramite un referendum da convocare entro cinque mesi. La battaglia per la Ley de Aguas apre una nuova fase nelle mobilitazioni indigene dell'Ecuador, che hanno ripreso un forte slancio dopo essere rimaste scottate dall'ingresso di due loro rappresentanti nel governo dell'allora precedente governo Gutierrez, prima che questo facesse capire quale fosse la sua vera natura. E ancora: la luna di miele con Correa terminata brevemente dopo che il suo governo, pur degno di considerazione per la Costituzione all'avanguardia, il riconoscimento del Sumak Kawsay (il buen vivir indigeno), la riappropriazione della base di Manta (in mano Usa), aveva aperto alla Ley Minera ed aveva sollevato dubbi sulla legittimità, pure sancita dalla stessa Costituzione, dello stato plurinazionale. "Chiederò ai miei parlamentari di archiviare domani questa legge risolvendo il problema", ha dichiarato Correa secondo quanto riportato da Misna. La pressione indigena è probabilmente divenuta insostenibile per il presidente, che comunque dovrà accettare una manifestazione di Conaie e Ecuarunari e tutte le altre confederazioni del mondo indio entro fine maggio. La mobilitazione infatti non si ferma: la consultazione pre-legislativa non avverrà prima di quattro mesi, per cui gli indigeni hanno di fronte a loro l'obbligo di dovere tener alta l'attenzione su questo tema. Inoltre resta molta incertezza sulle prossime mosse del presidente: Correa ha già detto che rifiuterà di approvare la Ley de Aguas se il testo sarà sottoposto a numerose modifiche che ne stravolgano il senso. Si prospetta quindi un vero e proprio referendum sulla sua figura, oltre che sulla Ley de Aguas, anche perché le dichiarazioni della Conaie non sono concilianti nonostante la vittoria: Alianza País, la coalizione di governo, ha da tempo identificato come suo nemico principale i popoli indios e gli ecologisti, hanno ribadito più di una volta, non a caso non hanno mai fatto pienamente parte del progetto Correa, anche quando i rapporti non erano così tesi come in questa circostanza. Inoltre, lo scopo del movimento indigeno è quello di coinvolgere tutta la popolazione in questa battaglia per il diritto all'acqua. "Non si tratta di una vertenza esclusivamente legata agli indios, ma a tutti gli ecuadoriani", hanno precisato i portavoce di Ecuarunari, di fronte al tentativo del governo di condurre un'operazione che dividesse la popolazione in buoni e cattivi, e in effetti la Ley de Aguas, la lotta per la sovranità alimentare e il rispetto della sovranità nazionale fanno parte di una stessa battaglia, quella che non intende svendere il paese alle rapaci multinazionali provenienti, queste si, dall'esterno del paese.Mentre nel movimento indigeno si ragiona su come proseguire la lotta, l'Assemblea Nazionale dell'Ecuador ha modificato la Ley Orgánica de la Función Legislativa affinché il processo di consultazione pre-legislativa abbia inizio.

Vittoria storica per il movimento indigeno
Ecuador: sospesa la Ley de Aguas
Marcia indietro (momentanea?) del presidente Correa
23 maggio 2010 - David Lifodi
Non hanno mai mollato e ce l'hanno fatta. Hanno resistito di fronte all'intervento della polizia, agli insulti, al tentativo di denigrare la loro protesta (è finanziata dall'esterno del paese, hanno detto) e adesso rilanciano. Il movimento indigeno dell'Ecuador ha ottenuto una vittoria storica, come ha scritto il portale Servindi, uno dei più competenti e aggiornati per quanto riguarda il mondo indio: la Ley de Aguas è stata sospesa. "Per il governo non è una priorità" ha spiegato il presidente Rafael Correa con una marcia indietro tanto repentina quanto inaspettata. E adesso gli indigeni non si fermano: chiedono una consultazione pre-legislativa sulla legge stessa. Alla base del successo sta l'assunto da mesi ripetuto dalla Conaie: gli indigeni rappresentano circa un terzo dei quindici milioni del paese, quindi hanno il diritto di essere consultati. La Corte Costituzionale ha stabilito che i popoli indigeni dovranno essere consultati prima dell'approvazione della legge tramite un referendum da convocare entro cinque mesi. La battaglia per la Ley de Aguas apre una nuova fase nelle mobilitazioni indigene dell'Ecuador, che hanno ripreso un forte slancio dopo essere rimaste scottate dall'ingresso di due loro rappresentanti nel governo dell'allora precedente governo Gutierrez, prima che questo facesse capire quale fosse la sua vera natura. E ancora: la luna di miele con Correa terminata brevemente dopo che il suo governo, pur degno di considerazione per la Costituzione all'avanguardia, il riconoscimento del Sumak Kawsay (il buen vivir indigeno), la riappropriazione della base di Manta (in mano Usa), aveva aperto alla Ley Minera ed aveva sollevato dubbi sulla legittimità, pure sancita dalla stessa Costituzione, dello stato plurinazionale. "Chiederò ai miei parlamentari di archiviare domani questa legge risolvendo il problema", ha dichiarato Correa secondo quanto riportato da Misna. La pressione indigena è probabilmente divenuta insostenibile per il presidente, che comunque dovrà accettare una manifestazione di Conaie e Ecuarunari e tutte le altre confederazioni del mondo indio entro fine maggio. La mobilitazione infatti non si ferma: la consultazione pre-legislativa non avverrà prima di quattro mesi, per cui gli indigeni hanno di fronte a loro l'obbligo di dovere tener alta l'attenzione su questo tema. Inoltre resta molta incertezza sulle prossime mosse del presidente: Correa ha già detto che rifiuterà di approvare la Ley de Aguas se il testo sarà sottoposto a numerose modifiche che ne stravolgano il senso. Si prospetta quindi un vero e proprio referendum sulla sua figura, oltre che sulla Ley de Aguas, anche perché le dichiarazioni della Conaie non sono concilianti nonostante la vittoria: Alianza País, la coalizione di governo, ha da tempo identificato come suo nemico principale i popoli indios e gli ecologisti, hanno ribadito più di una volta, non a caso non hanno mai fatto pienamente parte del progetto Correa, anche quando i rapporti non erano così tesi come in questa circostanza. Inoltre, lo scopo del movimento indigeno è quello di coinvolgere tutta la popolazione in questa battaglia per il diritto all'acqua. "Non si tratta di una vertenza esclusivamente legata agli indios, ma a tutti gli ecuadoriani", hanno precisato i portavoce di Ecuarunari, di fronte al tentativo del governo di condurre un'operazione che dividesse la popolazione in buoni e cattivi, e in effetti la Ley de Aguas, la lotta per la sovranità alimentare e il rispetto della sovranità nazionale fanno parte di una stessa battaglia, quella che non intende svendere il paese alle rapaci multinazionali provenienti, queste si, dall'esterno del paese.Mentre nel movimento indigeno si ragiona su come proseguire la lotta, l'Assemblea Nazionale dell'Ecuador ha modificato la Ley Orgánica de la Función Legislativa affinché il processo di consultazione pre-legislativa abbia inizio.

articolo scritto da David Lifodi per www.peacelink.it

Chineses compram terras em nova fronteira agrícola

Valor Econômico - 27/05/2010
https://conteudoclippingmp.planejamento.gov.br/cadastros/noticias/2010/5/27/chineses-compram-terras-em-nova-fronteira-agricola/?searchterm=

Chineses compram terras em nova fronteira agrícolaPlanos da China de investir no cerrado nordestino começam a virar realidadeAutor(es): Alexandre Inacio, de Luís Eduardo Magalhães (BA)O primeiro grupo de investidores chineses se prepara para desembarcar no oeste da Bahia. Depois de muitas especulações sobre o interesse de estrangeiros na região - nova fronteira agrícola -, a empresa Pallas International assinou com o governo baiano um protocolo de intenções para se instalar no Estado e produzir grãos para exportação, além de atuar em bioenergia. O grupo chinês, formado por investidores privados, mas com o governo da China como sócio, quer comprar de 200 mil e 250 mil hectares de terras, tanto no oeste da Bahia quanto na região conhecida como Mapito, o cerrado do Maranhão, Piauí e Tocantins. Um negócio da China. É o que esperam fazer o governo da Bahia e o primeiro grupo de investidores chineses que finalmente se prepara para desembarcar no oeste do Estado. Depois de muitas especulações sobre o interesse de estrangeiros na região - que se destacou nas últimas décadas como uma das últimas "novas" fronteiras agrícolas do país, junto com o cerrado de Maranhão, Piauí, Tocantins ("Mapito") -, o Pallas International assinou com o governo um protocolo de intenções para se instalar no oeste baiano com o objetivo de produzir grãos para exportação e também atuar no segmento de bioenergia, em parceria com produtores locais.Em princípio, o grupo chinês, formado por investidores privamos, mas sempre com a presença do governo da China como sócio, está interessado em adquirir entre 200 mil e 250 mil hectares de terras tanto no oeste do Estado quanto na região do Mapito. Discretos, mas decididos e, principalmente, capitalizados, os chineses passaram por Luís Eduardo Magalhães e Barreiras, conheceram o potencial produtivo da região e já consideram a possibilidade de instalar uma indústria de processamento de grãos na Bahia para a produção de biodiesel a partir do processamento de soja, algodão, girassol e mamona. "Para os chineses, a área de agroenergia é um setor de grande interesse. Eles precisavam da assinatura desse protocolo para acelerar a parte burocrática dentro da China e dar andamento no processo de investimento", comemora Eduardo Salles, secretário de Agricultura da Bahia. Tão ou mais discretos que os chineses são os estrangeiros que já estão instalados e produzindo na fronteira agrícola. O Valor apurou que americanos, holandeses, portugueses e japoneses já fazem parte do cotidiano de Luís Eduardo Magalhães e arredores. São pelo menos dez empresas de médio e grande porte, cultivando principalmente algodão, soja e milho. Já conhecidos pela população local, eles são arredios à entrevistas. "O governo já fica em cima da gente sem que haja exposição na imprensa", disse um produtor americano, que preferiu não dar mais detalhes sobre seus negócios na região. Circulando pelas ruas sem semáforos de Luís Eduardo Magalhães, ora asfaltadas, ora não, a reportagem entrou em contato com pelo menos outros quatro grupos, e a resposta foi sempre a mesma. Prevalece o receio de um aumento excessivo da fiscalização dos órgãos trabalhistas, ambientais e fiscais. Ao longo da BR-242, que corta toda Luís Eduardo e termina no litoral de Salvador, pelos menos três hotéis de alto padrão costumam receber os estrangeiros que visitam a região. "Sempre tem alguém por aqui falando outra língua. Desde janeiro estamos lotados para a primeira semana de junho, quando começa nossa feira [Bahia Farm Show] e muitos dos quartos são para estrangeiros", revela a recepcionista de um desses hotéis. Não é à toa que grupos como o Pallas e outros estrangeiros estão atentos às oportunidades no "Mapito-BA" e dispostos a investir, principalmente na aquisição de terras. Estimativas do mercado dão conta que exista no mundo aproximadamente US$ 20 bilhões disponíveis para compra de terras agrícolas em todas os países, sendo que pelo menos US$ 5 bilhões teriam como destino certo o Brasil. "Os estrangeiros enxergam uma oportunidade de investimento e o Brasil é uma das melhores opções, pois em países como Colômbia e Paraguai, além da África e do Leste Europeu, a insegurança institucional ainda é muito grande. O interesse desses investidores é enorme no Brasil, especialmente no Mapito e no oeste da Bahia", diz Fernando Jank, diretor geral da Tiba Agro, empresa brasileira que trabalha na captação de recursos estrangeiros para compra de terras no país e que já possui aproximadamente 320 mil hectares nessa região. O interesse não é por acaso. O cerrado nordestino e do Tocantins está pelo menos mil quilômetros mais próximo do porto que o de Mato Grosso e ainda tem terras mais baratas. Na região de Sinop, norte mato-grossense, o preço médio do hectare é 30% superior à média do "Mapito-BA". Na "nova" fronteira, ainda é possível comprar um hectare por cerca de R$ 5 mil. Esses investidores estão de olho em 20 milhões de hectares disponíveis para a agricultura, que estão fora do bioma amazônico e não são áreas de pastagem. Desse total, a estimativa é que pelo menos 4 milhões de hectares sejam divididos por 15 grandes grupos, entre investidores estrangeiros e empresas nacionais profissionalizadas, interessados tanto na aquisição de terras para investimento quanto na produção de grãos e fibras. Levantamento feito pelo Valor mostra que essas empresas já possuem pelo menos 2 milhões de hectares, a maior parte deles no Mapito e no oeste baiano, mas também em terras em Mato Grosso. "Esse tipo de empresa possui recursos para abrir áreas onde é possível investir, mas tem interesse de sair do negócio em algum momento. São empresas que trazem organização para o agronegócio em vários aspectos, inclusive o ambiental, pois não entram em áreas irregulares", diz Flávio Inoue, presidente da Sollus Capital, empresa formada por investidores americanos e brasileiros e que ampliará suas terras dos atuais 35 mil para 80 mil hectares ainda neste ano. De modo geral, existem dois grupos de investidores. O primeiro, geralmente formado por fundos interessados em aplicações de longo prazo na aquisição de terras baratas para torna-las produtivas e ganhar na valorização e um segundo interessado em terras para produção.

giovedì 27 maggio 2010

Si nasce e si muore






La notizia mi arriva quando sono per strada per andare a un incontro sui diritti al cibo e diritti alla terra organizzato dall’Università di Ferrara assieme ad altri Atenei. Muore un collega. Lascia una moglie e due figlie. Tristezza, soprattutto compassione umana per questo evento imponderabile che così come ha preso lui oggi potrebbe prendere un altro domani.



Date le cause del decesso, crisi cardiaca, la mente va immediatamente all’estate di 6 anni fa quando un brutale arresto cardiaco si portó via in un attimo colui che piú ho sentito vicino a me, quasi un fratello (Fritz, quello alto nella foto). Credevamo tutti e due che valesse la pena lottare dall’interno di queste organizzazioni per cambiarle in meglio, portarle piú vicine ai bisogni di quei poveri che costituiscono l’essenza stessa del nostro esistere. Senza essere rivoluzionari, per anni provammo a stimolare una partecipazione reale, al di lá delle solite chiacchiere; far si che i governi accettassero di scendere a patti anche con i movimenti sociali su questioni cruciali come l’accesso alle risorse naturali, terra e acqua. Ma anche cercare di farlo capire ai nostri capi, l’importanza del dialogo, della modestia e dell’esempio.

Si nasce e si muore, e lasciamo, a volte poche tracce. Quella volta toccò a Fritz. E in un attimo il suo lascito di lotta, di voglia di fare, fu dimenticato: borrón y cruenta nueva si dice in spagnolo, e quello successe. Morto per nulla mi dissi.

Ma non fu così. Fritz è morto per una lotta che NOI continuiamo, sperando che un giorno i nostri nipoti riusciranno a vedere un mondo migliore. Mi hanno soprannominato “Nokia”, dallo slogan: Connecting people, perché cerco di mettere assieme persone; stimolare iniziative dal basso, portare i movimenti sociali a dialogare, via (e con) la FAO sulle questione delle terre. Terra è potere, ed è quindi materia sensibile. Ho giá pagato per questo e sono pronto a continuare a pagare, perché so che questo esempio serve a chi vorrá continuare a lottare.

Poi c’ è chi lotta da un’ altra parte, potere e potere, esattamente quello che a noi non è mai interessato.

Si nasce e si muore: quello che mettiamo in mezzo a questi due estremi lo decidiamo noi: è la nostra scelta di vita che riempiamo (o no) con VALORI, CON L’ESEMPIO e con il CONDIVIDERE le strade degli altri.

Fritz non é morto invano: sei anni, ma soprattutto SEI ANCORA NEL NOSTRO CUORE.

mercoledì 26 maggio 2010

Quale cibo? Intervento a Ferrara

Ecco il testo dell'intervento di stamattina a Ferrara nel quadro del Festival dei Diritti.

Nella presentazione si insiste molto sulla questione della PARTECIPAZIONE e del rischio di cadere nella PARTECIPOLAZIONE neologismo (forse) firmato Hernan Mora Corrales (Particupalacion), che mette assieme la Partecipazione con il rischio di Manipolazione.

Neologismo piaciuto ai partecipanti, penso lo sentiremo ancora...

QUALE CIBO, PER CHI?LA SICUREZZA ALIMENTARE TRA RICCHEZZE E POVERTÀ

La PRIMA domanda é: PERCHE’ INTERVENIRE? Cioè perché noi, esterni ai sistemi locali ci permettiamo di incidere su queste realtá? Chi ce lo ha chiesto?

La SECONDA domanda riguarda il COME INTERVENIRE

E la TERZA ed ultima riguarda il COSA SUCCEDE DOPO l’intervento.

Alla PRIMA domanda possiamo rispondere cosí:
Esiste una relazione stretta fra sicurezza fondiaria e sicurezza alimentare. Il primo a spiegarlo chiaramente fu Josué de Castro col suo libro la Geografia della Fame nel 1946. Per cui se realmente vogliamo lottare per una maggiore sicurezza e sovranitá alimentare bisogna aprire la discussione sui diritti sulle terre.
Noi interveniamo perché i governi ce lo chiedono, quindi la domanda diventa: come mai i governi cominciano a diventar sensibili a questo tema? Possiamo immaginare varie ragioni, ma sicuramente alla base esiste una consapevolezza maggiore da parte delle comunitá locali (includendo le comunitá indigene) e delle organizzazioni che lavorano con loro, dei loro diritti, in primis sulla terra, per cui alzano la voce e si fanno sentire. Capita poi che a volte gli investitori esterni, nazionali o stranieri, ascoltino queste voci e cosí succede che magari anche un Ministro comincia a riflettere e pian piano si rende conto che forse qualcosa deve essere fatto. Questo “trickle-up” (gocciolamento verso l’alto – per usare una metafora al contrario – il solito trickle down) succede sul serio, tanto che siamo arrivati, con questo meccanismo a far sí che l’intera Unione Africana si interessasse alla questione fondiaria ed iniziasse un profondo processo di riflessione, aperto non solo ai governi ma anche alla societá civile. Un primo passo, ma importante.
Deve essere peró chiaro che se decidiamo di intervenire su una richiesta unilaterale di uno degli attori, importante finché si vuole, ma sempre uno solo, esiste un rischio di rispondere alle attese di quel attore (governo) e non dell’insieme degli attori. Bisogna anche capire chi siano gli altri attori interessati, e quali siano le loro percezioni del “problema” (messo fra virgolette perché alcuni degli attori potrebbero non vederlo come un problema).
Potremmo quindi riassumere dicendo che interveniamo non solo perché ce lo chiedono ma fondamentalmente perché se ce lo chiedono vuol dire che il modus operandi usato fin’ora non va piú bene e qualcosa deve essere cambiato.
Il rischio ovviamente è quello di prendere partito per gli interessi di quelli che vengono da fuori e percepire le comunitá locali e le loro regole, usi e costumi come dei “blocchi” allo “sviluppo” e lavorare nell’ottica di dare sicurezza fondiaria agli investitori, di fatto marginalizzando ancor di piú le comunitá locali.

Arriviamo quindi alla SECONDA domanda: come intervenire. Chiaramente ognuno puó dire la sua, ma nel nostro caso ci preme approfittare dell’occasione per far capire agli attori di peso, governo, investitori nazionali e stranieri, che l’unico modello che puó funzionare in questo contesto è quello INCLUSIVO delle comunitá locali. In altre parole, solo facendo sí che alla fine del processo tanto le comunitá locali come gli investitori si sentano piú sicuri e convinti di aver trovato un accordo win-win (vincente vincente), solo allora avremo innescato un processo di riduzione delle potenziali conflittualitá e di possibile mutuo soccorso per uno sviluppo di tutti e piú trasparente. Il COME farlo è ovviamente la parte piú complicata: noi c’abbiamo lavorato parecchi anni sul terreno ci siamo accordi che il modus operandi non andava più bene, come sottolineato prima. La grande domanda che ci siamo posti: Come creare le condizioni necessarie per aumentare o a volte costruire le coalizioni crescenti tra i governi (e soprattutto le frange più innovatrici dentro ai governi) e le organizzazioni della società civile? Abbiamo sentito quindi il bisogno reale di esplorare e ridefinire le caratteristiche delle risorse umane necessarie per FACILITARE questo processo di convergenza crescente e di collaborazione tra questi attori. Abbiamo deciso di usare il termine Facilitatore Territoriale per definire questa nuova figura professionale, più che di un singolo individuo, si tratta di un team multidisciplinare. Persone dotate delle caratteristiche proprie della mediazione culturale, interpretariato linguistico, conoscenze legali, usi , costumi locali..

Siamo così arrivati ad una proposta che parta dalla visione territoriale delle comunitá locali, con un esercizio di costruzione progressiva della territorialitá comunitaria, lavorando con gruppi separati e integrando le visioni delle donne e degli uomini, con una legittimazione da parte di tutti gli attori confinanti, in modo da far sí che i limiti di questi territori siano quelli effettivamente riconosciuti dagli altri e non solo quelli autodichiarati dal gruppo, ed infine tradotti in coordinate geografiche via GPS e, attraverso il processo giuridico, arrivare all’emissione di un certificato o titolo in nome delle comunitá. Il COSA sia scritto nel titolo dipende ovviamente dalla legislazione del paese, altro capitolo sul quale lavoriamo fin dall’inizio quando ci viene chiesto di intervenire. Ma il punto critico non è questo, quanto il principio della NEGOZIAZIONE che segue il processo di delimitazione. Diciamo innanzitutto che senza accordo fra le parti non puó fare e finire la delimitazione: per cui in caso di conflitto bisogna fermarsi e vedere le cause profonde e se esiste una possibile soluzione. Senza accordo non si delimita nulla. Chiaramente bisogna star attenti anche durante questi processi di delimitazione per capire COSA si sta delimitando: Ci sono diritti delle comunitá stanziali ma anche diritti delle comunitá mobili, pastori e bisogna star attenti a non togliere agli uni per dare agli altri: la delimitazione non deve diventare fonte di conflitti, cosa che, a volte, invece succede.

Ed eccoci alla TERZA domanda: la delimitazione è un’azione strumentale per creare conoscenza reciproca sui diritti degli uni e degli altri e sul fatto che sia meglio cercare un’intesa con le comunitá locali piuttosto che piazzarci sopra un intervento esterno, indipendentemente da chi sia l’investitore, senza aver “bussato alla porta”, esserci presentati, aver chiesto permesso e aver negoziato con loro. Con la delimitazione si rende evidente, anche nel catasto locale e nazionale, che esistono dei diritti (li rendiamo evidenti, perché in realtá sono diritti che esistono da sempre) e che, se un investitore vuol avere accesso a quelle terre lí, dove si trova la comunitá, deve andare lí a parlare e negoziare con loro. Il quanto e il come è ovviamente materia in evoluzione. Si vuol evitare che il consenso delle comunitá sia comprato con una bottiglia di grappa data al capo comunitá; vorremmo che il processo fosse totalmente trasparente ed equitativo. Questo necessita di anni di formazione in modo che le comunitá e loro rappresentanti abbiano le capacitá per negoziare con persone che magari nemmeno parlano la loro lingua ma che sono piú business oriented. Bisogna pian piano far sí che gli agenti del governo giochino pulito, e non siano troppo facilmente ricattabili e corruttibili (anche questo necessita decenni di lavoro). Peró questo è verso dove tendiamo col nostro lavoro. Preparare le basi per far si che i diritti locali siano riconosciuti FORMALMENTE, che servano come base per una discussione sul “se permettere l’entrata” di un investitore o no, e quindi siano un passo iniziale di un processo di cittadinanza attiva alla quale arriveremo chissá fra quanti anni.

Poi, per chiudere, vi diró che stiamo iniziando a lavorare anche all’interno delle comunitá, solo adesso, dopo che 15 anni di lavoro ci hanno permesso crearci una certa credibilitá. Lo scopo è di partire la discussione sui diritti delle donne rispetto alla terra, dato che spesso quando rimangono vedove (causa HIV o altro) succede che vengano messe alla porta e perdano i loro diritti fondiari. Anche questa discussione è legata alla sicurezza alimentare, ma solo dopo che si sia creata questa credibilitá è stato possibile proporla, senza esser visti come degli intrusi: di fatto è UN CAMMINO VERSO GLI ALTRI quello che stiamo proponendo, un riconoscimento dei diritti, da conoscere a da rispettare, a partire dal piú basico, la terra, per poter poi costruire una societá piú giusta.

Grazie a tutti.

martedì 25 maggio 2010

QUALE CIBO, PER CHI?LA SICUREZZA ALIMENTARE TRA RICCHEZZE E POVERTÀ

QUALE CIBO, PER CHI?LA SICUREZZA ALIMENTARE TRA RICCHEZZE E POVERTÀ - Ferrara, Festival dei Diritti
mercoledì 26 maggio
Polo Chimico Bio Medico “Mammuth”, Via Fossato di Mortara 17/19
Organizzatori Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale,Università degli Studi di Ferrara.
Con il patrocinio di Regione Emilia Romagna, Provincia e Comune di Ferrara.
Introduzione: Le ricorrenti emergenze alimentari nei paesi del Sud del Mondosuggeriscono quanto la sicurezza alimentare sia una dimensione fondamentale per unosviluppo sostenibile a livello globale e una questione di responsabilità reciproca degli attoricoinvolti nelle filiere alimentari. Questo evento è dedicato alle due dimensioni fondamentalidella sicurezza alimentare, la sicurezza dell'accesso agli alimenti e alle risorse e lasicurezza della salubrità del cibo. L'evento, che coinvolge tutti gli enti locali del territorio eavrà carattere divulgativo, prevede una presentazione dei temi nella mattinata e una lorodiscussione nei laboratori tematici del pomeriggio.

Il Convegno
8.30 Registrazioni
Saluti: Patrizio Bianchi, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Ferrara
9.00 Rossella Zadro, Assessore all’Ambiente – Comune di Ferrara
Giorgio Bellini, Assessore all’Ambiente, Agenda 21 Locale, Provincia di Ferrara

SICUREZZA ED EMERGENZA ALIMENTARE
Coordina: Alessandro Medici, Direttore del Centro di Ateneo per laCooperazione allo Sviluppo

9.30 Interventi:
Malnutrizione, produzione e sprechi Andrea Segrè, Università degli Studi di Bologna
Presentazione del libro: “Sicurezza alimentare nei Paesi in Via di Sviluppo”
Anna Maria Gentili e Corrado Tornimbeni, Università degli Studi di Bologna

RISORSE E DIRITTI
Coordina: Corrado Tornimbeni, Università degli Studi di Bologna
Interventi:
10.30 Sicurezza alimentare e sicurezza fondiaria: spunti di riflessione per uno sviluppo rurale sostenibile in Africa
Paolo Groppo, Land Tenure and Management Unit (NRLA) - FAO
Grano duro in Etiopia: un progetto di sviluppo della “filiera” delle capacità Tiberio Chiari, Istituto Agronomico per l’Oltremare, Firenze
11.30 Coffee break
SOVRANITÀ ALIMENTARE E RESPONSABILITÀ SOCIALE
Coordina: Gabriella Rossetti, Università degli Studi di Ferrara
Interventi:
Indicazione geografiche e responsabilità sociale: istruzioni per l’uso Filippo Arfini, Università degli Studi di Parma
12.00 Certificazione alimentare e sostenibilità della filiera Marco Mari, Bureau Veritas Sovranità alimentare: economie di sussistenza e autarchia Maurizio Pallante, Saggista
13.30 Buffet solidale
LABORATORI DI SAPERI APPROPRIATI
Società e risorse
Coordina: Gabriella Rossetti
14.30 Silvia Macchi, Direttrice di CIRPS/SPED;
Barbara D'Ippolito, Dottoranda di CIRPS/SPED, Roma
Laura Scalvenzi, Prometeo-Bio, Trento
Davide Chinigò, Università degli Studi di Bologna
Sérgio Niquisse, Centro per lo Sviluppo Sostenibile delle Zone Urbane, Ministero per il Coordinamento dell'Azione Ambientale, Mozambico
LABORATORI DI SAPERI APPROPRIATI
Mercato e cooperazione
Coordina: Corrado Tornimbeni
14.30 Claudio Bertoni, Commercio Alternativo, Ferrara
Donato La Muscatella, Libera, Ferrara
Lorenzo Nichelatti, COOPEAGRO, Maragogi-Brasile
Cecilia Navarra, Università degli Studi di Torino
Feed-back dei laboratori tematici e conclusioni a cura di Gabriella Rossetti e
16.45 Corrado Tornimbeni
Nel corso dell’intero evento sarà attivo il Salone della Cooperazione
La giornata è organizzata nell’ambito del Festival dei Diritti edizione 2009-2010

lunedì 24 maggio 2010

Ecuador: Propuesta de archivar Ley de Aguas es atinada y oportuna, según Paredes

ecuadorenvivo.com
lunes 24 d emayo

Domingo Paredes, secretario Nacional del Agua coincidió con el planteamiento que hizo el Jefe de Estado, en días pasados, donde propuso el archivo del proyecto de Ley de Aguas, que se analiza en la Asamblea.
Manifestó que “la decisión del Presidente ha sido muy importante, atinada y oportuna. Es decir, un instrumento legal que ha generado conflictos, tantas malas interpretaciones e incomprensiones, donde aparecen elementos anticonstitucionales en los planteamientos de algunos dirigentes indígenas”, publica la página web de la Presidencia.
Paredes puntualizó la importancia de un marco legal modernizado, puesto que la actual ley data de 1972. Por ello insistió en que es pertinente establecer un lapso de tiempo prudencial para construir un proyecto de Ley más concertado y que se ajuste a la Constitución de la República.

Ecuador-. Correa acusa a los líderes de las protestas indígenas de ambicionar el control exclusivo del agua

europapress - 19 d emayo de 2010 desde Madrid

El presidente de Ecuador, Rafael Correa, acusó este martes a las asociaciones de pueblos indígenas que hace unas semanas se manifestaron contra la reforma de la Ley de Recursos Hídricos de presionar al Gobierno para obtener el control absoluto sobre el agua y reiteró su rechazo a estas reivindicaciones.
"Creen que a punta de piedra y palo van a conseguir lo que no consiguieron en las urnas y yo no puedo responsablemente darles a los indígenas el manejo del agua, que es tan importante, porque sería irresponsable ese corporativismo", dijo Correa durante el encuentro que mantuvo con inmigrantes ecuatorianos en la facultad de medicina de la Universidad Complutense de Madrid.
El mandatario indicó que el objetivo de las movilizaciones de la semana pasada, que provocaron varios heridos, es obtener en exclusiva la gestión sobre los recursos hídricos nacionales en detrimento del resto de ecuatorianos, por lo que consideró "irresponsable" la actuación de los líderes indígenas de estas asociaciones.
Además, el dirigente indicó que estas protestas son fruto de una mala interpretación por parte de los pueblos indígenas del concepto de plurinacionalidad que se incluyó en la nueva Constitución y cuyo objetivo principal era "reconocer la heterogeneidad cultural de Ecuador, no hacer estados dentro del Estado".
"Hoy tenemos movimientos por parte de algunos dirigentes indígenas insensatos que pretenden que la plurinacionalidad sea cogobernar, y perdonen, pero en democracia el que gobierna es el que gana las elecciones, no el que tira más piedras", añadió Correa en referencia a los enfrentamientos entre los manifestantes y las fuerzas de seguridad frente al Congreso.
Asimismo, el presidente insistió en que "esas convocatorias fueron un fracaso total" porque la mayoría de las comunidades indígenas no comparten las reivindicaciones de los manifestantes ni sus métodos de protesta, y agradecen al Gobierno el apoyo institucional a sus comunidades.
"La mayoría del pueblo indígena está con nosotros porque su problema básico es la pobreza y nosotros somos los que más hemos hecho para combatir la pobreza, los que más hemos hecho por el tema del agua y por reconocer la plurinacionalidad", destacó el mandatario

Concluye la campaña más disputada y ejemplar a la presidencia de Colombia

El Espectador lunes 24 de mayo

Los candidatos favoritos a ganar la Presidencia de Colombia, Antanas Mockus y Juan Manuel Santos, cerraron el domingo sus campañas tras la contienda electoral más disputada, pero también la más ejemplar y democrática de las últimas décadas.
A una semana de las elecciones del 30 de mayo se celebraron los últimos mítines, tal y como lo determina la legislación electoral, para dar paso a una semana en la que podrán participar en debates de televisión pero no realizar actos públicos.
Fue una jornada dominada por las fuertes lluvias, especialmente en Bogotá, motivo por el que Mockus inició con más de dos horas de retraso su acto político en la céntrica Plaza de Bolívar.
A pesar de ello, miles de simpatizantes llegaron a pie o en bicicleta con paraguas y camisetas verdes, el color que ha simbolizado su campaña, así como con girasoles y banderas.
Desde el estrado, el candidato del Partido Verde, convertido en la revelación de esta campaña con una propuesta basada en la legalidad y la educación, pidió unión y confianza entre los ciudadanos para cambiar el rumbo y convertir a Colombia en un país "poderoso".
"Algún día tres colombianos cualesquiera confiarán entre sí, como estamos confiando ya todos los que aquí estamos. Que esa confianza reine y le permita a Colombia ser un país tremendamente poderoso", dijo a la multitud.
La confianza genera comunicación, transparencia y sinceridad, y hace que la "violencia se vuelva obsoleta", agregó el aspirante, quien aspira a que, en un país sumido en un conflicto armado interno desde hace medio siglo, dentro de 20 años nadie mate a un compatriota "por 20.000 pesos" (unos 10 dólares).
Santos, por su lado, cerró en Cartagena con un gran concierto en el que participaron cantantes de vallenato y donde apostó por un cambio social que permita generar empleo y oportunidades de educación para los colombianos.
"Aquí presté mi servicio militar, aprendí a bailar (...) tengo grandes recuerdos de Cartagena", dijo Santos, al asegurar que la región Caribe será la que le dará "la diferencia en el triunfo del 30 de mayo".
Según las últimas encuestas, Santos y Mockus están empatados en las intenciones de voto y ambos se disputarían la presidencia de Colombia en una segunda vuelta prevista el 20 de junio.

Indiani e marea nera in Luisiana

Figaro 20 maggio 2010

«Ils nous ont pris nos terres ; ils ont amené l'eau de l'océan en creusant des canaux pour que leurs bateaux rejoignent leurs plates-formes dans les marais ; maintenant ils nous envoient une marée noire»… L'accent traînant de Kirk Cherame, Indien de la tribu Houma, renforce le poids de sa complainte contre ces compagnies pétrolières, arrivées au début des années 1930 dans ce bayou au sud de la Louisiane, qu'elles ont peu à peu annexé. Jeudi, c'est devenu officiel : le pétrole, issu du puits sous la plate-forme BP Deepwater Horizon détruite le 20 avril dernier, a commencé à pénétrer les canaux et marécages. «Ce brut que tout le monde redoutait est maintenant ici ! », s'est exclamé Bobby Jindal, le gouverneur de la Louisiane, lors d'un tour d'inspection en bateau.
Entre eau, herbes et boues, le désastre écologique est en marche, dans cette gigantesque zone de reproduction du plus giboyeux et poissonneux État américain. Une fois le plancton et les micro-organismes détruits, c'est toute la chaîne alimentaire - huîtres, crevettes, poissons, oiseaux - qui sera touchée. Jusqu'aux hommes qui vivent de la pêche.
Structurée socialement autour de cette activité, la tribu indienne Houma, qui revendique 17000 âmes dans le sud de la Louisiane, pourrait ainsi se déliter. Le bayou appartiendrait alors entièrement aux maîtres de l'or noir.
Pour les pêcheurs, le combat était par trop inégal. Entre Port Fouchon, où sont arrivées les premières boulettes de mazout il y a deux semaines, et Houma, cette ville qui tire son nom de la tribu éponyme, la plupart des familles, même celles où l'homme part sur son bateau, ont un salaire versé par l'industrie pétrolière. Les routes, les bâtiments, les écoles, tout a été peu ou prou financé par l'or noir, bien que la Louisiane demeure le plus gros producteur de poissons et de fruits de mer des États-Unis.
«La chevrette va crever»
Le bayou, l'une des premières réserves écologiques de l'Amérique, est quadrillé par les plates-formes pétrolières et un important réseau de pipelines. À Port Fouchon, le responsable de l'État de Louisiane chargé d'encadrer tout journaliste désireux de constater l'avancée de la marée noire sur la plage, n'en fait pas mystère : «18 % des besoins en pétrole des États-Unis passent par Port Fouchon. Rien ne doit arrêter le trafic ici, car cela aurait des conséquences sur le pays tout en entier.» Tournant le dos, comme pour le protéger, à un vaste complexe pétrolifère, cet officiel entend signifier que le va-et-vient des bateaux entre les plates-formes en mer et Port Fouchon ne sera pas retardé par des opérations de décontamination.
Aujourd'hui du côté des pêcheurs, Kirk Cherame, a, lui aussi, longtemps travaillé pour le camp ennemi. «Mais je n'y retournerai pas, promet-il. Ce qui me fait le plus du mal, c'est d'imaginer que je vais peut-être devoir quitter cette terre, remonter vers le nord. Ma fille déjà ne reviendra pas : à quoi bon, si on ne peut plus pêcher, plus se baigner dans l'océan !»
Kirk Cherame vivrait cet exil forcé comme une nouvelle épreuve imposée à son peuple. Repoussés par la jeune nation américaine tout en bas de la Louisiane, les Houmas s'étaient installés dans ce bayou infecté de moustiques et de caïmans. Alliés des Français dont ils parlent encore la langue, ce surprenant cajun, ils ont été ensuite floués par les anglophones attirés par la découverte de pétrole dans le sud de la Louisiane.
Maintenant la marée noire met peu à peu au chômage tous les pêcheurs. Sans lien évident de parenté avec Kirk, Roy Cherame a accepté les conditions de BP, déposé ses filets, et n'attend plus qu'un coup de téléphone de la compagnie pétrolière pour s'enrôler à son service. Le cachet de 2000 dollars par prestation l'a appâté. Mais, alors qu'il doit laisser son bateau à quai, le téléphone n'a toujours pas sonné depuis deux semaines. Roy parle en cajun de la «chevrette » (la crevette), qui vit au fond des marais. «Si l'huile entre en dedans, la chevrette, le crabe, le poisson, tout va crever, et nous aussi on va crever.» Comme pourrait également sombrer dans la marée noire, ce français aux tournures du XVIIe siècle dont le phrasé s'apparente au québécois, encore parlé ici par certains Indiens et Cajuns, ces descendants de la Louisiane conquise par Louis XIV.

domenica 23 maggio 2010

TEMPO DI BILANCI (2)

Anni dopo mi venne da ripensare a tutto questo e da lì pian piano nacquero delle riflessioni che adesso, con la scusa dei 50 che arrivano, comincio a mettere per iscritto, così da lasciare qualcosa a mia figlia un giorno, quando vorrà cercare di capire che razza di padre ha avuto.
La riflessione su chi siamo noi, da dove veniamo e cosa ci porta, (insomma le solite domande senza risposta…) iniziò girando il mio primo documentario ad Anguillara, sulla storia delle vecchie lotte contadine per la riforma agraria. Eravamo su a Polline, con nonno Cerioni e Sergio Pierdomenico, detto Sergio de Costantì. Sergio vide una ghianda per terra, la colse e la mise in tasca. Alla domanda di cosa intendesse farne, lui che aveva passato i 70 da un pezzo, rispose con naturalezza che pensava piantarla per far crescere una quercia. Lui che forse non l’avrebbe mai vista e che non aveva famiglia a cui lasciarla pensava al domani, al passo dopo passo, al ritmo lento della natura.
Ecco, li ebbi la sensazione di cominciare a capire la mia relazione a quegli anni passati: siamo venuti su non solo guardando i fratelli maggiori ma anche pensando ai nostri padri, alle storie raccontateci su “quegli anni”, alle loro sofferenze e ai loro ritmi di vita; insomma siamo venuti su come una generazione contadina, o di semplici muratori. Un passo dietro l’altro, costruire con solide fondamenta, preparare il terreno per piantare in autunno, sperare in un buon inverno, e preparasi a cogliere il raccolto nel domani. Non avevamo parole per dire “un mondo nuovo è possibile”, ma forse, invece di andarlo a gridare e cercare il colpo magico che lo avrebbe fatto apparire, ci preparavamo a una camminata lunga che chissà se mai sarebbe finita.
C’era forse una fede, almeno in alcuni di noi, non necessariamente religiosa, direi nell’essere umano, ma era anche una fede scettica perché quello stesso essere umano era stato capace delle cose più turpi. I Khmer rossi in Cambogia erano li per ricordarcelo, che un altro genocidio era possibile, per cui era ovvio per noi che non potevamo esser ciechi. Guardare avanti, ma anche guardarsi indietro, sognare si, ma con i piedi ben piantati per terra. Non letture incendiarie, ma manuali tecnici, andare con “nonno” Angelo a riparare case, imparare i segreti del costruire un muro mattone su mattone, andare in cantina con Roberto dal suo vecchio amico Cavazza per sentire e capire (forse) le storie familiari di come fare il vino, invecchiarlo, farlo maturare. Queste erano le nostre ghiande.
Forse è da qui che nacque la voglia di andar a studiare da geometra e non da liceale. Una scelta inconscia a favore del passo lento e sicuro piuttosto che di un mondo che mi sembrava astratto e troppo lontano dal mio mondo contadino.
Per molto tempo mi sentii come una generazione di mezzo: troppo giovani per quel 68 di cui si sentiva tanto parlare e troppo vecchi (già) per le nuove movenze che nascevano nella scuola. Eravamo venuti su a Nutella e Happy Days. I sogni del 68 erano già spariti, Cuba già non era un modello per nessuno di noi, ma sentivamo, a pelle, che non potevamo accettare il mondo cosi com’era e che per apportare la nostra goccia al mulino avevamo tanta strada davanti a noi (Quanta strada da fare, però quanta strada? Ancora non lo so – cantava un giovane Baglioni).
Da questa diversità veniva un approccio al mondo abbastanza confuso, dato che non avevamo manuali politici che ce lo spiegassero; erano sensazioni meno mediate dalla politica, non c’erano tanti “gruppi di studio”, c’era più musica (se un elemento comune esiste per la generazione del 1960 è di essere quella delle radio FM che, da metà anni 70, cominciarono a trasmettere musica giorno e notte): scoprii tanto e di più: da quell’Eugenio Finardi incrociato ai giardini Salvi il pomeriggio del suo primo concerto a Vicenza, al Banco, alla Premiata, Le Orme, Guccini e i Nomadi, ma soprattutto un album mitico di Claudio Lolli, che ancor oggi ascolto con molto piacere: Ho visto anche degli zingari felici. In classe nostra, al Canova, avevamo anche uno dei primi DJ (anche se in realtà non avevano nemmeno un nome: stavano in radio e trasmettevano musica): Gianni Candia, che non ha fatto successo come geometra, ma la cui voce ci ha accompagnato per molti anni (ricordo ancora il suo programma, al mattino presto: Pane, Burro e … Radio Blu). Il mio consigliere particolare era Athos che, in cambio di qualche ripetizione, mi registrava cassette di musica americana, inglese e canadese, country soprattutto, che mandava in onda alla radio dove lavorava: conobbi cosi Bruce Cockburn, Joni Mitchell, i Camel, Loggins and Messina, Joe Egan e tanti altri che, a difetto di capire cosa dicessero (la nostra era ancora una vita essenzialmente in due lingue: vicentino e italiano – per le comunicazioni col mondo esterno) ti portavano lontano e sentivi che il mondo non finiva ai bordi del Livelon (nome popolare del Bacchiglione).
Quello che, a posteriori, ci mancava o abbiamo coltivato poco, era un senso nostro del bello. Lo sentii chiaramente quando un inverno partimmo per Vienna, un freddo da cani (o da bissi, nella nostra lingua) e andammo a vedere Klimt. Fu un risveglio impressionante, una specie di pezzo di puzzle che dava un senso ai vari musei visti negli anni precedenti, forse più per dovere che per vero piacere. Ma Klimt accese un’altra lampada, una piantina nuova, onestamente poco coltivata , finchè pian piano arrivò in superficie e luce fu. Il gusto della propria ricerca artistica, del passare da spettatore a complice dell’artista che crea, quando non addirittura al suo fianco.
Per guadagnarmi qualcosa accompagnai Carlo alcune volte in Germania a portare valori per conto dei “Rangers” per cui lavorava. Notti di viaggio ascoltando Alberto Radius. Carlo che aveva deciso di non continuare l’esperienza nei corpi speciali dei paracadutisti e quel che ci raccontava di quel mondo era più che sufficiente per aumentare i nostri dubbi, già profondi, sui militari e il loro modo reale di rapportarsi agli altri.
Ottanta e ottantuno, anni che ci hanno marcato profondamente: i socialisti che vincono in Francia, Mitterand a piedi verso il Pantheon seguito da una folla incredula ma felice. Adesso si che si cambiava, anche in un paese inserito nel mondo capitalista si poteva immaginare un cambio. Solidarnosc in Polonia mostrava che le lotte dal basso possono, a volte, sconfiggere i poteri più forti, come avremmo visto più tardi. Dal canto suo il Nicaragua si apprestava a resistere alla guerra mossagli dagli Stati Uniti per interposte forze (i Contras di Eden Pastora).
Ecco, bastarono poche notizie come quelle per darmi la forza di credere che, fuori dagli schemi tradizionali, fosse possibile costruire qualcosa di diverso. Ma quello che avevamo dentro era anche qualcos’altro, cosi ovvio che non se ne parlava, ma che avremmo scoperto, come parola, molti anni dopo. Avevamo dei valori. Trasmessi dai nostri genitori, respirati nelle scuole che frequentavamo e che ritrovavamo uguali nelle famiglie degli amici che avevamo.
Fine seconda puntata

Ventiseiesimo libro 2010: Muro di fuoco - Henning Mankell


Marsilio Editore Collana Tascabili


Tynnes Falk, un uomo in perfetta salute, muore senza causa apparente poco dopo aver utilizzato il Bancomat. Johann Lundberg, tassista, muore in ospedale dopo essere stato aggredito da due ragazze, Sonja Hökberg e Eva Persson, quest’ultima minorenne. La stessa Sonja, fuggita dalla stazione di polizia, provoca suo malgrado un blackout che lascia al buio l’intera Scania quando viene rinvenuta cadavere in una centrale elettrica sperduta in mezzo alla campagna gelata. Un uomo viene fatto a pezzi dall’elica di una nave. Mentre indaga insieme ai colleghi su questi casi apparentemente slegati tra loro, il commissario Kurt Wallander deve anche affrontare problemi interni al dipartimento di polizia e questioni personali. Il commissario Wallander di Muro di fuoco è un poliziotto vicino alla mezza età che soffre di diabete e stanchezza. Si preoccupa per le sue cattive abitudini, bere e fumare, è oberato dal lavoro, è stato denunciato per metodi violenti, è lontano dalla figlia, assente anche al telefono, ed è così solo che si è ridotto a mettere un annuncio su una rubrica di cuori solitari per trovare una compagna. E, come sempre, è preoccupato dall’inaffidabilità della sua macchina e dall’apparente mancanza di fiducia da parte dei suoi colleghi del distretto di Skåne. Nel corso dell’indagine prende forma una cospirazione a livello mondiale che ha a che vedere con i computer e la Rete. Wallander e i suoi colleghi ricorrono quindi a un giovane hacker, condannato per aver violato il sito del Pentagono, per fronteggiare la minaccia proveniente dai cyber-terroristi. Da qui il sibillino significato di “muro di fuoco”, firewall, cioè il filtro informatico che si oppone alle intrusioni, qui una metafora per descrivere la difesa della società dalle minacce provenienti dall’esterno. La trama appare leggermente obsoleta – d’altra parte il libro è uscito in Svezia nel 1999 – ma non è questo che conta: la tensione, nei gialli di Mankell, nasce dal contrasto tra l’ordine apparente e il disordine criminale. Wallander è un poliziotto ordinario che di fronte al crimine si chiede: cosa sta succedendo alla società? Non è tanto il senso del crimine che gli sfugge, quanto il quadro più generale: come è potuto accadere che la tranquilla Svezia sia diventata teatro di episodi di violenza che non hanno niente da invidiare alle strade del Bronx? È questo il senso delle indagini di Wallander, lo sgomento di fronte ai crimini che trovano radici nel gelido clima scandinavo e che si annidano sotto la superficie asettica e apparentemente ordinata della società svedese.
Entra a buon titolo nella mia top ten dell'anno

sabato 22 maggio 2010

MADRID 22 MAGGIO 2010: GRACIAS PRINCIPE

Inter - Bayern 2-0 doppietta del Principe Milito y el TRIPLETE llegò.. grazie a Mourinho, al Presidente e a tutta la squadra... abbiamo sognato da tanti, troppi anni....

venerdì 21 maggio 2010

Libertá di bloggare addio?

Ieri il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50-bis: Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet; la prossima settimana Il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60.

Il senatore Gianpiero D'Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della"Casta". In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i /providers/ dovranno bloccare il blog.

Questo provvedimento può far oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all'estero; il Ministro dell'Interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può infatti disporre con proprio decreto l'interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.

L'attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore; la violazione di tale obbligo comporta per i provider una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000. Per i blogger è invece previsto il carcere da 1 a 5 anni per l'istigazione a delinquere e per l'apologia di reato oltre ad una pena ulteriore da 6 mesi a 5 anni perl'istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all'odio fra le classi sociali.

Con questa legge verrebbero immediatamente ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta! In pratica il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia Facebook, Youtube e *tutti i blog* che al momento rappresentano in Italia l'unica informazione non condizionata e/o censurata.

Vi ricordo che il nostro è l'unico Paese al mondo dove una media company ha citato YouTube per danni chiedendo 500 milioni euro di risarcimento. Il nome di questa media company, guarda caso, è Mediaset. Quindi il Governo interviene per l'ennesima volta, in una materia che, del tutto incidentalmente, vede coinvolta un'impresa del Presidente del Consiglio in un conflitto giudiziario e d'interessi.

Dopo la proposta di legge Cassinelli e l'istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al "pacchetto sicurezza" di fatto rende esplicito il progetto del Governo di /normalizzare/ con leggi di repressione internet e tutto il istema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare.

Tra breve non dovremmo stupirci se la delazione verrà premiata con buoni spesa!

Mentre negli USA Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet in Italia il governo si ispira per quanto riguarda la libertà di stampa alla Cina e alla Birmania. Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati il blog Beppe Grillo e la rivista specializzata Punto Informatico.

Fate girare questa notizia il più possibile per cercare di svegliare le coscienze addormentate degli italiani perché dove non c'è libera informazione e diritto di critica il concetto di democrazia diventa un problema dialettico.

documentazione diffusa dal
Coordinamento Provinciale Veronese degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani
c/o Provincia di Verona Gruppi Consiliari via S.Maria Antica 1 37121 Verona
Consigliere/i: Allegri, Caldana, Campagnari, Rizzi.....Coord. tecnico: Andreoli,Ferrari,Velardita
www.perlapace.it-www.scuoledipace.it mail:entilocalipaceverona@alice.it 335 8373877

Un viaggio verso gli altri- presentazione a Bracciano

Metto qui il testo della mia presentazione di domenica, per chi non avesse tempo di venire. Un articolo é in preparazione su L'Agone nuovo e dovrebbe uscire la settimana prossima.

Itinerario di un osservatore curioso

Questo video (In viaggio verso gli altri) rappresenta una tappa di un percorso iniziato sette anni fa alla scoperta del territorio dove vivo: Anguillara ed i suoi abitanti.Cominciammo dalla storia recente, degli ultimi cento anni, alla riscoperta di quelle radici contadine, di quell’attaccamento alla terra che portò i paesani tutti a lottare per le loro terre e perché fossero riconosciuti i loro diritti (Anguillara, terra di Dio o degli uomini?).

Questo periodo finisce idealmente con le ultime “occupazioni” del secondo dopoguerra e con l’intervento della polizia che mise in carcere alcuni dei paesani che difendevano quello che era loro. Inizia da lì un dopoguerra segnato dalla ricerca di un senso del crescere da parte del paese che, pian piano, inizia ad integrarsi col resto del territorio: la strada che porta a Trevignano, quella lungolago e poi, con il boom economico e delle macchine, l’arrivo dei romani che cercano un pezzetto di terra per farsi casa. Da lì che inizia a manifestarsi la tentazione di sfruttare l’ambiente, un po’ da furbetti, di rilottizzare i lotti di terra ricevuti dal primo piano regolatore, per vendere pezzetti piccoli e farci i soldi (Anguillara, il senso del crescere).
Ecco, i tratti che mi hanno colpito: l’apertura agli altri, ai “foresti” che venivano a portar soldi; sfruttare una rendita di posizione, vendere terre ma senza poi riuscire a dare un senso compiuto a questa trasformazione che iniziava. Perdita di radici in cambio di soldi, senza rendersi conto cosa significasse questo arrivo di nuova popolazione.Il paese cresce, i soldi girano, c’è lavoro, per cui arrivano sempre di più gli immigrati a cercar lavoro e pian piano il paese sparisce. Resta una minoranza di anguillarini, che tengono stretto il potere politico, ed attorno una maggioranza di anguilla resi, con un numero in forte crescita di immigrati. Molte comunità, moltissime, che, al non trovare uno schema di accoglienza, si rinchiudono in se stesse. L’Anguillara degli anguillarini non sa cosa offrire e si chiude, pian piano, sempre di più. Abbiamo cercato di mostrare questa realtà di immigrati (Quando gli albanesi eravamo noi), in modo da stimolare almeno la curiosità, di cercare di capire chi fossero, cosa lasciassero dietro di loro al venir a cercar fortuna in Italia. Per un momento sembrò che una parte della politica anguillarina lo capisse, tanto che si organizzò anche una festa, il cui obiettivo era di mettere assieme anguillarini e stranieri. La festa riuscì molto bene, e facemmo un video anche su questo (Everybody in the Casa mare), titolo mezzo inglese e mezzo romeno, tuttora inedito; non vennero gli anguillarini, e tutto finì lì, nemmeno il video venne mai mostrato, tanto poco era l’interesse sul tema.
Ognuno si è rinchiuso a casa sua, noi abbiamo continuato a raccontare pezzi di un mondo che spariva (un video sugli ultimi pescatori, anche questo inedito) ed uno precedente sulle donne, le vecchie anguillarine, con un parallelo con la mia terra, il Veneto, per mostrare come fossero simili le radici paesane antiche. Si è andati avanti con la speculazione immobiliare, con un rapporto sempre più conflittuale col territorio, mostrando chiaramente come quello che premiava era l’interesse individuale, a scapito di tutto ciò che era fare comunità. Nulla di nuovo sotto il sole, questo era ed è quello che offre la società attuale, e quella italiana in particolare. Io guardo da fuori questi cambiamenti, vedo e sento crescere una frattura fra gli uni e gli altri. Il razzismo è ancora strisciante, ma tutto inizia dal non voler sapere chi siano gli altri, quali le loro storie, i perché delle loro scelte. Poi si va avanti con le frasi classiche: tornatene a casa tua, cosa sei venuto a fare qua… che molti di noi ci siamo sentiti dire, anch’io le ho ricevute, cosi come mia moglie. Un passo alla volta la società si disgrega … e ci si allontana gli uni dagli altri.Da tutto questo nasce Un Viaggio verso gli altri. La curiosità che è parte di me, il passar davanti ogni giorno alla Cusmano, la voglia di sapere cosa succedesse li dentro: ecco, tutto questo si materializza un giorno a pranzo, quando il mio amico Massimo, che lì dentro ci lavora, mi spiega, fra un bicchiere e l’altro, chi siano, che senso abbia questo progetto, le difficoltà ed anche i risultati. I contatti vengono stabiliti, con Massimiliano iniziamo ad andare a parlare con Amedeo, con le suore e poi con Francesco. Pian piano ci diventa chiaro che bisogna farlo questo video, perché lì dentro quello che producono è un bene che non ha prezzo: producono speranza, fiducia e ridanno credibilità a degli esclusi. Il video diventa quindi un messaggio, non sulla questione della droga; leggerlo in questo modo sarebbe riduttivo, va al di là, vuol raccontare loro, gli operatori, la forza che sono riusciti a trovare dentro se stessi, in un momento quando la società va esattamente nella direzione opposta, verso l’individualismo puro, ecco loro creano comunità, fanno società. Nessuno può garantire i risultati, ma ci provano, coinvolgono tutti in questa strada lunga e difficile. Noi speriamo solo di esser riusciti a rendere in maniera visiva questi gesti quotidiani, questa voglia laica di credere nell’uomo. A voi di giudicare.

giovedì 20 maggio 2010

Corso a Pavia: Master in Cooperazione allo Sviluppo

http://www-3.unipv.it/iuss/cdn/

questo lo metto per ricordarmi che fra le altre mille cose faccio anche dei corsi a questo Master, da oramai 10 anni. Il tema del dialogo, negoziazione e concertazione, presentato e discusso con un gruppo moklto attento di ragazzi e ragazze provenienti da tutto il mondo. Molte domande e una discussione interrotta solo dal tempo che manca....

una buona esperienza...

domenica 16 maggio 2010

INTER CAMPIONE - QUINTO ANNO CONSECUTIVO

Onore ai vincitori ma anche alla Roma. Bravo Ranieri a rimotivare un gruppo che sembrava perso, ma ovviamente un grande applauso a MOU.... e sono 2...

“Principles for responsible investment in agriculture”

“Principles for responsible investment in agriculture”
Monday, 26 April 2010
Palais des Nations, Room XXVI
Geneva, Switzerland
UNITED NATIONS ON TRADE AND DEVELOPMENT (UNCTAD)
COMMISSION ON INVESTMENT, ENTERPRISE AND DEVELOPMENT

Remarks made by Olivier De Schutter
UN Special Rapporteur on the Right to Food

I am worried. A consensus is emerging among the international institutions about the need to guide investment in agriculture in order to ensure that it shall proceed responsibly, and many of us are here today because they wish to contribute to shaping this consensus. But at the same time, many civil society groups and farmers’ organisations, including the most representative among them, denounce ‘land-grabbing’. Indeed, they denounce the very idea of adopting a code of conduct. They see this as legitimizing what, in their view, should not be allowed : depriving the poorest from their access to land, and increasing concentration of resources in the hands of a minority.
They see, as we all do, that all too often, notions such as ‘reserve agricultural land’, or ‘idle land’, are manipulated out of existence – as the Principles for Responsible Agricultural Investment that Respects Rights, Livelihoods and Resources before us rightly note, ‘that there are few areas truly ‘unoccupied’ or “unclaimed”, and that frequently land classified as such is, in fact, subject to long-standing rights of use, access and management based on custom’. They see that the requirement that evictions take place only for a valid ‘public purpose’, against fair compensation, and following consultation of those affected, is honored more in the breach than in the observance. They live on the frontline : in countries in Africa where land is considered to be State-owned, and treated by governments as if is it were their own ; in Latin America, where agrarian concentration is on the rise ; or in South Asia, where many populations are being driven off their land as we speak, to make room for large palm oil plantations, for special economic zones, or for reforestration projects.
If it is to be responsible, agricultural investment must take these concerns seriously, and it must
address them. It must be investment that benefits the poor in the South, rather than leading to a
transfer of resources to the rich in the North. It must be investment that truly reduces hunger and malnutrition, rather than aggravating them. It is my belief that we have been moving both too slowly and too fast : too slowly, because a phenomenon – the increase of commercial pressures and speculation over land – has been developing on a very broad scale without the international community acting in a truly coordinated way to guide this development ; and yet too fast, because we have focused on how to promote responsible investment, when investment can only be seen in a much wider context, and as one small part of a much broader strategy.
I shall not dwell today on the seven Principles before us, nor shall I comment on the eleven Minimum Principles based on human rights that I presented last month before the Human Rights Council (see UN doc. A/HRC/13/33/Add.2). Rather, I shall replace this debate in its wider context, because only by taking into account this context can we begin to answer the legitimate concerns that I have recalled.
Whether investment in agriculture can be channelled towards poverty-alleviating aims depends not just on how it proceeds at the project level, but also on how it fits into a broader development strategy. I offer seven theses about this relationship between the micro and the macro, between the project level and the broader aim of human development. The suspicion of the civil society actors and farmers’ organisations stems, to a large extent, from the inability of many actors involved in this discussion to articulate this relationship. It is a challenge we must now urgently meet.
Thesis # 1. The public policies that aim at guiding investment should be primarily focused not on
the need to boost production, but on the urgent need to contribute to rural development and to
the increase of incomes in the rural areas Over the past twenty years, food production has increased by an annual 2 percent, while population growth has increased by an annual average of 1.2 percent, and is now situated around 1.09 percent. Hunger and malnutrition are not primarily the result of too little food being produced; they are the result of poverty and inequality, particularly in the rural areas, where 75 percent of the world’s poor still reside. That is not to deny that needs are to be met : in certain countries, the population still doubles at every
generation, as the result both of high fertility rates and of increased life expectancy, and global
population increases by some 75 million individuals each year ; diets evolve, with a demand for more variety in diets and for more a greater amount of animal protein. But these facts matter only to the extent that, combined with the unsustainable levels of consumption in rich countries – the demand for meat and the thirst for agroenergy, in particular –, they lead to increased pressures on natural resources – farmland, water, grassland, and forests –, encouraging in turn speculation over land and large-scale dispossessions of the poorest and the most vulnerable, particularly smallholders and indigenous communities that lack adequate protection and political support. It is not by producing more that we will effectively combat hunger : it is by protecting those who are hungry today, and who are hungry because they are disempowered and marginalized. This indeed, is one often overlooked lesson from the Green Revolution of the 1960s through the 1980s in Latin America and South Asia. The volumes produced increased spectacularly, as a result of a technological fix including a massive expansion of irrigated areas, the introduction of high-yielding varieties of plants, and a huge increase in the use of fertilizers and of mechanisation. But, while the overall production was boosted, inequalities were exacerbated : the vast majority of the studies which examined the equity dimensions of the Green Revolution concluded that the switch to more capitalized forms of agriculture, which many small farmers could not benefit from and which bypassed many woman-headed households, in fact increased inequality instead of reducing it. In South Asia, while the production of food per capita increased by 9 per cent between 1970 and 1990, the number of hungry people increased by the same percentage over that period. In South America over the same period, food availability per capita rose by 8 per cent, yet there were 19 per cent more hungry
people. We like to think ahead, but let us first humbly be students of that sad history.

Thesis #2. Agricultural investment must fit into a broader poverty reduction strategy, including
a strategy for the realisation of the right to food. Indeed, there is a risk that, instead of being an instrument for development and poverty alleviation in the rural areas, agricultural investment will become an end in itself – and that the end goal of human developmant and the realization of the right to food will be sacrified for the sake of the short-term objective of attracting investors.
This should not be allowed to happen. States should be encouraged, instead, to prepare national
strategies for the realization of the right to food that include a mapping of food insecurity and
vulnerability ; an identification of the obstacles the poor face in the realization of the right to food; the definition of the measures that should be taken to remove these obstacles, by whom, when, and with which budgetary resources ; and that provide for a monitoring of progress in the implementation of the strategy. The policies related to foreign investment should fit into such a strategy, in order to ensure that investment will be channelled to the most poverty-reducing uses. One of the benefits of the adoption of such strategies – as for instance the Fome Zero strategy adopted by Brazil in 2003, or the National Food and Nutrition Security Strategy 2008-2015 (ESAN II - Estrategia de Segurança Alimentar e Nutricional) adopted in Mozambique – is that they are in principle adopted with the active participation of the communities affected, including farmers’ organisations : this not only ensures that the choices will be made in accordance with the needs of those directly affected, it also increases the accountability of government towards those involved in such a mechanism.

Thesis #3. A human rights framework is vital to the sustainability of agricultural investment
The reference to human rights as would be facilitated by fitting investment policies under such
strategies seems to me essential. It is one thing to do things responsibly. It is quite another to ensure that those who may be affected by whatever is done will be protected by having access to remedies before independent bodies, including courts. The Principles for Responsible Agricultural Investment that Respects Rights, Livelihoods and Resources do not even refer to human rights. As a result, the dimension of accountability of governments and private actors alike, and of control by independent bodies, is lost. But this dimension is crucial : if hunger and malnutrition are the result of social injustice and inequality, rather than simply of a failure to produce enough food, protecting the legal entitlements of the poor is essential.
The human right to adequate food in particular has a central role to play in this discussion. When the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights was drafted in 1966, the governments accepted a duty to further the realization of the right to food, inter alia, ‘by developing or reforming agrarian systems in such a way as to achieve the most efficient development and utilization of natural resources’ (Art. 11, § 2, a)). In 2004, the 127 Member States of the FAO adopted the Voluntary Guidelines aimed at promoting progressive realization of the right to adequate food in a context of food security, a set of concrete recommendations that all governments have accepted. According to Guideline 8.1, ‘States should facilitate sustainable, non-discriminatory and secure access and utilization of resources consistent with their national law and with international law and protect the assets that are important for people’s livelihoods. States should respect and protect the rights of individuals with respect to resources such as land, water, forests, fisheries and livestock without any discrimination. Where necessary and appropriate, States should carry out land reforms and other policy reforms consistent with their human rights obligations and in accordance with the rule of law in
order to secure efficient and equitable access to land and to strengthen pro-poor growth. Special
attention may be given to groups such as pastoralists and indigenous people and their relation to
natural resources’. Guideline 8.2 stresses the importance of guaranteeing security of tenure, especially for vulnerable groups, including through the adoption of adequate legislation. These are not just words. They are commitments of the international community. And they are based on a diagnosis of hunger as stemming from the violation of human rights, and not simply on the lack of technology and capital. I fear that, in certain respects, we may have been moving backwards since then.

Thesis #4. The arrival of investment in agriculture may exarcebate the competition between two
types of farming – a competition that is deeply unequal. To simplify, we may distinguish between three types of farms : the small farm producing a diversity of crops, often combined with small animals on the same plot of land, using few or no external inputs, and producing mainly for the household and the local community ; the small farm tied to larger markets, including by a long-term relationship with a buyer as in contract farming or outgrower
schemes, and most often producing a single crop with the support of external inputs and credit ; and the large plantation, heavily mechanised, with an easy access to external inputs and to markets, including global markets.
The competition between these producers small and large, integrated or not integrated into broader supply chains, is intensifying today. And it is biased. The large and mechanized farms are highly competitive, in the sense that they can produce for markets at a lower cost. Smallholders, in contrast, unless they are effectively supported by the supply chains which they join, produce at a higher cost.
They are often very productive by hectare, since they maximize the use of the soil, and since they seek to achieve the best complementary use of plants and animals. But they practice a form of agriculture that is both labor-intensive, and makes little use of external inputs. If they compete on the same markets as the large farms, they lose. Yet, the services they render are invaluable, in terms of preservation of agrobiodiversity, resilience of local communities to price shocks or weather-related events, and environmental conservation. In contrast, while large plantations produce at highly competitive prices, they also produce a number of social costs that are not accounted for in the price of the produce they sell on the markets.
The arrival of investment in agriculture alters the relationship between these worlds of farming. It exacerbates this competition. If governments remain passive, small-scale agriculture will be driven out, and with it the important positive externalities it delivers for the communities where it is allowed to flourish. Certain governments have experimented with policies that can support smallscale, or ‘family’ farming, and allow it to coexist, more or less peacefully, with other types of farming, including large-scale commercial farms. Among these policies are a preferential access to support schemes, including below-market-rate access to credit ; the use of public procurement schemes to support smallscale farming – for instance, since July 2009, 30% of the food puchased under the Brazilian school-feeding programme should come from small family farms, representing a powerful encouragement for family farmers –; the development of farmer field schools and extension services, storage facilities, or other public goods that primarily benefit small farmers ; or the encouragement to the creation of cooperatives. Whether such tools are sufficient to equalize the competition between smallholders and large producers remains to be seen ; but I have no doubt that such policies urgently need to be implemented or scaled up to protect small farmers from the trends we are witnessing.
Indeed, there is a strong risk that the wave of land investments, seen as an opportunity, will lead public authorities into one direction, devoting most attention and resources to it, with comparatively fewer resources and attention going to the policies promoting smallholder farming. Resources are scarce, they need to be more focused to the priority of hunger and poverty alleviation. We should keep in mind the conclusions reached in 2008 by the International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IAASTD), which noted that ‘Technologies such as highyielding crop varieties, agrochemicals and mechanization have primarily benefited the better resourced groups in society and transnational corporations, rather than the most vulnerable ones. To ensure that technology supports development and sustainability goals strong policy and institutional arrangements
are needed (…)’ (IAASTD (2008) Summary for Decision Makers of the Global Report). The IAASTD calls for a fundamental paradigm shift in agricultural development, noting that ‘successfully meeting development and sustainability goals and responding to new priorities and changing circumstances would require a fundamental shift in [agricultural knowledge, science and technology], including science, technology, policies, institutions, capacity development and investment.’ These conclusions, the result of a three years process initiated by the FAO and the World Bank, and which involved 400 experts from all regions, underline the pitfalls of productivity-centred approaches, favouring instead more integrated approaches, including agro-ecological farming approaches.

Thesis #5. In order to protect the rights of landusers, ‘titling’ schemes are both insufficient and
potentially damaging. It has been fashionable in recent years to present the clarification of rights over land, in the form of property rights recognized through ‘titles’, as a core ingredient of market-based development. However, while the legal protection of landusers has clearly been insufficient, explaining many of the abuses both in the past and today, land policies should prioritize the protection and realization of the right to food above the creation of a market for land rights.
The legal protection of access to productive resources, including in particular land and water, is vital for the rural poor. In numerous cases, smallholders or indigenous communities have been driven off the land they depended on for their livelihoods, whether as a result of the arrival of investors using land for large-scale plantations, particularly related to agrofuels production, or as a result of the building of dams, tourist resorts, or other large-scale infrastructure or industrial projects. In this context however, enhancing security of land tenure, while necessary, is not sufficient. Where improving security of tenure takes the form of individual titling, it results in the transposition of Western-style property rights over land that may negate the function that land fulfils in many rural communities across the global South, not to mention the special relationship to land of indigenous peoples. It can lead in time to a counter-agrarian reform (i.e., re-concentration of land ownership) unless measures are taken both to support the viability of smallhold agriculture, and unless communal rights over land are recognized and institutionalized.
Indeed, it would be naïve to think that the sequence from security of tenure to improved production and to increased incomes for the land-users is an automatic one. Instead, if not carefully managed, security of land tenure through titling schemes can mean that land will be increasingly subject to speculation and to commercial pressures, and that, in time, the poorest and cash-strapped farmers will lose the land on which they depend. Even when compensation is offered to them for the land they cede, they may not be able to find alternative means of securing a decent livelihood, and food insecurity can increase as a result.
In addition, there is clearly a tension between ceding land to investors for the creation of large
plantations, and the objective of redistributing land and ensuring more equitable access to land, as governments have committed to do, for instance, when they adopted the Final Declaration adopted at the International Conference on Agrarian Development and Rural Development (Porto Alegre, 7-10 March 2006). This tension can only be overcome if we put our efforts not only into monitoring and guiding investments in land, but also into exploring other business models linking investors to producers, that can ensure stability of supply for the buyers while at the same time improving access to markets and better revenues for the farmers – for it will only very rarely be the case that the only viable form of investment is one that brings about shifts in rights over land, despite the considerable risks such shifts may involve : in general, other schemes, referred to as outgrower schemes or contract farming, may have fewer long-term implications and present fewer risks than transfers of landusers rights per necessity entail. As I argued in my latest report to the Human Rights Council, if contractual arrangements do not result in a disproportionate portion of the value going to the buyer, and in all the risks linked to production (as a result of weather-related events or pests, or due to changes in consumers’ preferences) being shifted to the producer, they may be a preferable solution, better suited
to the needs of all parties.

Thesis #6. Sequencing is crucial : appropriate conditions must be created in the receiving
country before investment flows in public policies such as the support to smallscale farming or the improvement of security of tenure by the recognition of landusers’ rights shall be more difficult to launch once the agricultural sector shall have been transformed by the emergence of a highly capitalized sector, competitive on both the domestic and the global markets. Indeed, once such development shall have taken place, it will be too late, often, to protect those whose livelihoods may have been impacted as a result. By then, the veto points will be many, and they will be difficult to overcome. For this reason, it is important to improve governance structures and the policy environment prior to the arrival of large amounts of investment
in agriculture: in all likelihood, later will be too late.

Thesis #7. Both receiving States and States where investments originate from have a
responsibility to ensure that investment in agriculture proceeds responsibly. Much emphasis has been placed, in recent international discussions, on the responsibility of the receiving State to channel investments wisely, to protect the rights of the local communities affected
by the investment, and to make a transparent use of the revenues accruing for the State from the investment. But international investment is typically an area where both FDI-exporting and FDIreceiving States have a responsibility. This is true, of course, as far as public investment is concerned, including when it takes the form of sovereign wealth funds being part of larger investment projects. But it is also true of private investment flows. Private investment funds in particular, which played an important role in the increased speculation on land over the past few months, should be appropriately monitored by their State of origin. States have a duty under international law to protect the human rights that may be affected by the activities of private actors which they are able to influence. I am actively cooperating with the OECD on the revision of the Guidelines for multinational enterprises they initially adopted in 1976, and which have been revised a number of times since ; it is my hope that clearer guidance will be given to the private sector as regards the specific question of agricultural investment in the next version of the guidelines, that are currently under discussion.

These are the challenges we are facing. The challenge, I repeat, is not just to ensure that agricultural investment will develop ‘responsibly’. It is also to create the policy environment that will ensure that it will not produce the disruptive effects that, all too often, it has led to in the past. We cannot afford more dispossessed, greater inequalities in the rural areas, and more smallholders driven off their land because farming shall have ceased to be viable for them. We cannot allow for pastoralists to lose access to their grazing areas, and more fishers to be cut off from their fishing grounds. We cannot tolerate more indigenous peoples being victims of the destruction of the forests they depend on, or being fenced off from these forests as a result of carbon sequestration projects. There is no time to lose, and I am very grateful to the UNCTAD for providing us with this unique forum where to hold this vitally important discussion.

Olivier De Schutter was appointed the UN Special Rapporteur on the right to food in March 2008 by the United Nations Human Rights Council. He is independent from any government or organization, and he reports to the Human Rights Council and to the UN General Assembly.

Ecuador: Indìgenas y agua

Reuters: viernes 14 de mayo

QUITO (Reuters) - El movimiento indígena de Ecuador suspendió el viernes temporalmente sus protestas contra un polémico proyecto de ley de recursos hídricos, mientras la Asamblea Nacional pidió iniciar un proceso de consulta a las comunidades antes de la votación para aprobar la iniciativa.
Desde el lunes, los indígenas protagonizaron duras manifestaciones cerrando con piedras, palos y neumáticos algunas carreteras del país, en medio de enfrentamientos con policías y la advertencia del Gobierno de que no permitirá la paralización de servicios como el transporte.
"No hemos dicho que están terminadas las movilizaciones. Hemos suspendido temporalmente", dijo a periodistas el presidente de la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (Conaie), Marlon Santi.
El presidente de la Asamblea Nacional, Fernando Cordero, pidió en la víspera a un equipo del legislativo que inicie el procedimiento para consultar a las comunidades si están de acuerdo con el proyecto de ley.
Sin embargo, la medida no es aceptada por los grupos indígenas, quienes afirman que las sugerencias y cambios que se realicen a la iniciativa legal dentro de la consulta no se aplicarán porque no son consideradas por la Constitución como vinculantes.
"La consulta tiene que ser vinculante", insistió Santi durante una rueda de prensa, donde manifestó su inconformidad con el proceso.
El principal punto de disputa entre el Gobierno y los indígenas es la creación de un ente estatal regulador del uso del agua, y especialmente por quién tendrá el control sobre su administración.
El Gobierno ha sido claro en manifestar que no permitirá que las comunidades indígenas controlen este organismo.
"Lo que no vamos a permitir es que un grupo, por importante que se crea, se apodere del agua", dijo el presidente Rafael Correa en una entrevista a un medio local.
En tanto, la votación en la Asamblea para aprobar el proyecto de ley estará suspendida por al menos cinco meses, tiempo en el cual se llevará adelante la consulta a las comunidades.

due parole su Madrid

German ci ha piazzato bene all'Hotel Mayorazgo in Flor Baja; da lì si gira a piedi, trovi bar a tapas a due passi per cui le 24 ore libere le abbiamo usate così: un giro al Prado per tornar a vedere Goya, El Greco e Rubens, dopo 24 anni dall'ultima visita, un salto al Corte Inglès, quattro passi per la città (verso Lavapiés, quartiere quasi del tutto indiano) e poi unas tapas con canhas e poi un piatto di jamòn ibèrico con rioja.

Erano più di vent'anni che non tornavamo a Madrid e l' abbiamo trovata bella e pulita. Molte linee di metro (12), tutte pulitissime, altro che Tags, in orario, con posti indicati per far salire gli handicappati; traffico un po' caotico ma nulla inconfronto al nostro, soprattutto quando si compari l'inquinamento acustico. Già me n'ero accorto il mese scorso passando per Lisbona, ma stavolta è stato ancora più evidente. Da noi senza il claxon non esci neanche da casa, mentre lì sembra proprio di stare in un paese civile: addirittura le auto si fermano ai passaggi pedonali...

Temperatura freddina, ma un po' di sole è riuscito a mostrarsi; magazzini non proprio pieni, mentre al Prado sì: sarà stata la coincidenza con le vacanze francesi, ma la folla era abbastanza impressionante, con una dominanza francese chiarissima.

Queste due foto le abbiamo fatte all'uscita del Prado, seduti a prendere 5 minuti di sole.

Visitato l'ufficio di Germàn, con ottima vista su Madrid; non rimpiange Roma, lui che c'ha vissuto per decenni. Molta vita notturna, tanta gioventù in giro, nei negozi trovi dei marchi spagnoli interessanti, insomma un paese che val la pena visitare.. certo se fossimo riusciti a trovare un biglietto per sabato 22.. ci sarei tornato subito.. e di corsa....



sabato 15 maggio 2010

Torniamo a parlare di Haiti

Cito un estratto di un articolo di Barbara Schiavulli pubblicato su L'Espresso del 13 maggio col titolo: L'agonia di Haiti.

"Il 31 marzo scorso, le Nazioni Unite, la Banca mondiale e decine di paesi donatori hanno stanziato 5,3 miliardi di dollari per i prossimi due anni e altri 5 per i successivi otto: Haiti non è mai stata così ricca. E così disorganizzata. Nessuno si fida di mettere i soldi in mano al governo che è stato dimezzato dal sisma e resta comunque uno dei più corrotti al mondo. Il Parlamento si riunisce in tenda ai piedi del palazzo presidenziale distrutto. Centinaia di organizzazioni umanitarie sgomitano per aiutare la gente, ma un vero piano di intervento non c'è. Forse perché le Nazioni Unite hanno perso 200 persone il giorno del terremoto, forse perché il Paese non sa da che parte cominciare. Non sa neanche dove creare i nuovi campi con le case prefabbricate. Il Duch relief group, Cordaid (organizzazione olandese), sta per finire 150 abitazioni con le pareti di tela e gli infissi di legno, più di una tenda ma meno di una casa. "Sono troppo lenti, così ci vorranno dieci anni", si lamenta una signora che aspetta fiduciosa di trovare il proprio nome nella lista di coloro che accederanno al villaggio. Ma il problema, oltre alla presenza di macerie che impediscono la ricostruzione e il risanamento delle case ancora in piedi, è la guerra per la terra. Molti haitiani vivevano in affitto e i padroni di case e terre non vogliono in alcun modo prestare i loro beni per paura che le costruzioni provvisorie diventino permanenti, non sarebbe la prima volta in un Paese quasi tutto abusivo. I proprietari di case, scuole e terreni, dove sorgono le tendopoli, stanno sfrattando gli ospiti. E per questo nella capitale non sono state edificate più di una decina di case provvisorie. "Sono dispiaciuto che dopo settimane e settimane di sforzi, non abbiamo ancora un posto per costruire", spiega il portavoce della Croce Rossa, Alex Winter. Gli ingegneri passano il loro tempo a cercare di identificare i luoghi dove innalzare le gru . "Se non fai le cose come si deve, si possono creare scontri", dice Alex Coissac, dell'Organizzazione internazionale per la Migrazione".

Allora, ste cose qua le scrivevo vari mesi fa, dette e ripetute ai colleghi che lavorano nel quadro del post-terremoto, senza che si sia smosso un chiodo. Quasi che fosse una fissa mia. Poi va lì una giornalista, nemmeno specialista di disastri, e riesce a capire al volo l'importanza di questo problema. Ricorderete cosa ho scritto tempo fa: non si vuol toccare il tema terra perchè fa paura. Peccato che senza metterci le mani (e adesso è già troppo tardi) non si capisce come si possa pensare alla ricostruzione del paese.

Torneremo su questo martoriato paese periodicamente per vedere come avanzano le cose.

Venticinquesimo libro 2010: Cuore di pietra - Sebastiano Vassalli


Einaudi (Supercoralli)


Con questo nuovo romanzo Vassalli torna a un ambiente che conosce bene, ed appare chiaramente riconoscibile anche se non esplicitamente dichiarato: una città padana che assomiglia a Novara, teatro di oltre cent'anni di storia, dall'unità italiana a questa travagliata fine secolo. Al centro della sua saga Vassalli ha posto una grande villa. Ideata come una dimora principesca per una famiglia aristocratica di origine napoletana, la villa cambierà rapidamente padrone, conoscerà decine di personaggi, sullo sfondo di una decadenza inarrestabile, sino a diventare il ricovero degradato di gruppi di extracomunitari. Animato da una forte passione civile, l'autore ha scritto un nuovo capitolo della sua storia d'Italia che va componendo da anni.


Scorrendo internet si trovano parecchie critiche non troppo positive su questo libro. A me invece è piaciuto, sia per lo socrrere veloce del tempo, per il susseguirsi rapido, ironico e quasi casuale degli avvenimenti, tutti imperniati attorno a questa casa. Non sarà un capolavoro ma con la primavera di pioggia che abbiamo quest'anno, aiuta a passare qualche ora di buona lettura.


Escapada a Madrid: "EL HAMBRE AÚN NO ES HISTORIA"

jueves 13 de mayo a las 19:00

proyección de:
'GUATEMALA, LA TIERRA ARRASADA'

http://dailymotion.virgilio.it/video/x116yh_guatemala-la-tierra-arrasada_politics

de JOSÉ GAYÁ. Guatemala/España, 2004, 52 minutos
Coloquio: Paolo Groppo, jefe de Desarrollo Territorial de la FAO (Roma); y Francisco Gozón, cineasta.

Presenta y modera: Ferran Montesa,
director general de Le Monde diplomatique en español

Este ciclo está organizado por:
Fundación Mondiplo y Le Monde diplomatique en español, la Oficina de Información de la FAO para España y Andorra y La Casa Encendida


Sinópsis del documental:

Guatemala es un país multiétnico, con muchos recursos naturales, donde gran parte de su población es indígena campesina. En 1996 se firmaron los acuerdos de paz tras una guerra civil que azotó el país durante 36 años y que causó más de 200.000 muertos, en su mayoría indígenas. Este documental trata de recuperar la memoria histórica de ese genocidio. Testigos directos de las masacres relatan cómo sobrevivieron a esos difíciles años. La guerra acabó en 1996, pero los principales problemas que la originaron (distribución de la tierra, altas tasas de pobreza, etc.) siguen vigentes todavía hoy. En la actualidad, la incertidumbre que se vive en Guatemala sigue siendo notable, y ante la ineficacia de los poderes para resolver estos problemas, los movimientos indígenas campesinos se organizan y luchan por su futuro.

giovedì 13 maggio 2010

TEMPO DI BILANCI (1)

TEMPO DI BILANCI
Ed eccoci qua, all’alba dei 50 anni, tempo di guardarsi indietro e di riflettere su questo mondo, il tempo che passa e che sogni ci restano.
Quasi trent’anni a girare il mondo, con i sogni di un ventenne e adesso col realismo (cinismo?) di un cinquantenne. Che mondo era quello della fine anni 70? Direi che, visto dall’Italia (e dal nostro Veneto in particolare) era un periodo particolarmente nero, con un terrorismo in casa che sviluppava allora tutta la sua “geometrica potenza” come diceva allora Franco Piperno (chissà cosa volevano dire con questa immagine…): il Presidente del Consiglio ostaggio delle Brigate Rosse, giudici ammazzati e giornalisti gambizzati erano il pane quotidiano dei giornali all’epoca. Era però anche il periodo degli “indiani metropolitani” di Bologna e delle prime radio libere (ma libere veramente, come cantava Eugenio Finardi). A Parigi la gente era ancora li a guardare stupefatta la “raffineria” costruita in pieno centro da Renzo Piano; quel centro Pompidou che rompeva gli schemi rigidi dell’architettura di una metropoli occidentale e ci invitava a pensare in un modo diverso, ma soprattutto a vivere l’arte, una simbiosi tra cittadinanza e opera d’arte mediata dalla piazza inclinata davanti all’entrata che invitava artisti di strada, venditori ambulanti, turisti e gente qualsiasi a passar di là, sedersi, chiacchierare, insomma a fare vita.
In Nicaragua arrivavano i Sandinisti, rivoluzionari borghesi che si dicevano diversi dagli altri rivoluzionari precedenti, e che riuscirono a farci sognare (ricordate el hombre nuevo?).
Ma più a sud erano ancora i militari a dettar legge: la giunta argentina aveva appena trionfato nel mondiale 1978, riuscendo a darsi una patina di riconoscimento internazionale, mentre i colleghi brasiliani continuavano il loro sporco lavoro con minor attenzione dell’opinione pubblica, ancora concentrata su quel personaggio sinistro che rispondeva al nome di Augusto Pinochet. I Chicago boys facevano le prove in diretta delle loro teorie liberiste, che tanto danno avrebbero portato negli anni successivi. Dalla Francia rientrava in patria l’ayatollah Khomeini a guidare la rivoluzione islamica in Iran, cacciando via la dinastia Pahlevi imposta dagli americani dopo il loro colpo di stato degli anni 50.
Nel Salvador Monsignor Romero veniva ammazzato in chiesa (e siamo ancor in attesa di giustizia) e il presidente americano Carter, dopo la fallimentare impresa del tentativo di liberazione degli ostaggi all’ambasciata di Teheran lasciava campo libero a Ronald Reagan che, assieme a Margaret Tatcher, avrebbe segnato a lungo la storia recente (e non è finita, perché il nuovo ministro degli affari esteri del governo Cameron viene da quella nidiata lì).
Tante ragioni per pensare si trattasse di un periodo nero, nerissimo della storia mondiale. Un mondo diviso in due blocchi: o di qua o di la, non c’era spazio per nessuna mediazione, e tutto indicava che gli anni successivi sarebbero stati ancor più violenti. I Russi si imbarcavano in una guerra in Afghanistan che già aveva portato alla sconfitta l’esercito inglese cent’anni prima, Iran e Iraq iniziavano una guerra che avrebbe fatto più di un milione di morti, mentre nel sud africano da un lato continuava l’apartheid e Mandela era un nome sconosciuto ai più, e dall’altro spariva la Rhodesia per lasciar spazio allo Zimbabwe di Mugabe, lotta di liberazione che adesso è sfociata in pura miseria per molti e molta ricchezza per pochi.
Eppure, malgrado tutto questo, vien da pensare a quegli anni come a un periodo felice se lo compariamo all’attualità. Sarà perché eravamo giovani e come sempre la tendenza è vedere le cose più belle solo perché era il nostro tempo felice?
Forse dobbiamo fare un passo indietro, ricordando la generazione dei fratelli maggiori che, nel nostro immaginario, avevano “fatto” il 68. Li vedevamo con occhiali nostri, giusti o sbagliati che fossero; loro erano quelli della generazione dell’uomo sulla luna, di Woodstock, delle rivolte a Berkeley, del pugno nero di T. Smith e J. Carlos alla premiazione dei 100 metri a Città del Messico, ma anche del “piombo caldo” per Bob Kennedy, della bomba a Piazza Fontana e dei “mettete dei fiori nei nostri cannoni”.
Per noi, fratelli minori, loro erano quelli del “cogli l’attimo”, del colpo in canna, del gesto simbolico che cambiava tutto: chi si ricorda, fra i nostri vicentini, la passione per quel giocatore particolarissimo che fu Vendrame? Lui incarnava, in salsa veneta, quello che Best fu per il campionato inglese: il sogno, la pazzia, il gesto artistico dell’individuo che si “beve” tutto e tutti.
Per noi, fratelli minori, era diverso. Guardavamo tutto ciò con un misto di curiosità, invidia forse ma con una sensazione che già si era girato pagina e che dovevamo costruire il nostro referente a partire dalle nostre esperienze e dalla nostra vita.
Certo ci fu chi rimase agganciato all’idea del “gesto”, dell’idea che un colpo solo può cambiare la vita, può cambiare il mondo. Ci furono quelli delle RAF in Germania, di Action Directe in Francia e da noi Brigate Rosse e tutto il resto. I colpi a Aldo Moro erano però lontanissimi da noi, già scendere in piazza ci pareva estraneo. Ricordo il giorno del rapimento, ero rappresentante di Istituto al Canova e venimmo convocati in Presidenza per informarci di cosa era successo e chiedendoci di convocare un’assemblea per dirlo agli altri studenti. Era un cosa da marziani per noi. Troppo grande questo omicidio, troppo lontane dalle nostre esperienze quelle pretese rivoluzionarie dei brigatisti e loro affini.
Pur essendo vicini a Padova, a quell’Autonomia Operaia ed altre frange della sinistra extraparlamentare, mai cosa avrebbe potuto sembrarci più assurda. Dalla morte di Guido Rossa, operaio, per mano delle Brigate Rosse, la storia dei “compagni che sbagliano” non poteva prendere con noi.
Non siamo stati una generazione di militanti, perché cercavamo dentro di noi le nostre risposte, alle nostre domande e non volevamo demandare a nessuno di farlo al posto nostro. Un po’ di individualismo, sicuramente. Forse perché venivamo da quegli anni 60, del boom, non eravamo la generazione del dopoguerra, della povertà, eravamo già dopo tutto questo; guardavamo i fratelli maggiori con rispetto, ma allo stesso tempo erano lontani da noi, cosi come probabilmente lo eravamo noi per loro.

Fine prima puntata