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martedì 22 marzo 2011

Al Fasher: 21 marzo - primo giorno di primavera


Ed eccoci arrivati nella capitale del Darfur. Fra un po' andrò a fare il security briefing e ne saprò un po' di più. Per il momento mi accontento di quanto mi hanno detto i colleghi d'ufficio di qua.

Prima cosa: niente foto. Rischi non solo di esser sbattuto fuori ma, peggio, di esser messo dentro. Secondo: alle 19.00 scatta il coprifuoco, tutti a casa, salvo quando fanno dei parties che però devono essere autorizzati dall'alto considerando che è necessaria una scorta armata per muoversi, in pulman.

La città è una garnison town, una fortezza militare, dove gran parte della popolazione, al di là degli IDPs (sfollati) è militare. In realtà la maggioranza è composta da sfollati che sono qui oramai da anni, in campi di fortuna, tende tirate su alla meglio ma non ancora baracche, che sarebbe il primo segno di installazione vera e propria. A psanne saranno un paio di milioni e il governo ha annunciato, l'anno scorso, l'intenzione di riportarne qua un altro milione e mezzo. Date le condizioni di (in)sicurezza fuori dalle città, difficile capire il senso dell'operazione. Politicamente vorrebbero far vedere che le cose cominciano a stabilizzarsi ma secondo i colleghi qui di stabilizzato c'è solo la precarietà. In centro città girano armati e tutti i giorni si sentono spari.

In tre anni sono state rubate qualcosa come trecento gipponi, mica bruscolini. Comparato con altre situazioni emergenziali mi dicono che qui il problema sia lo stress psicologico. In qualsiasi momento quelli della sicurezza nazionale possono decidere di te e della tua organizzazione: l'hanno già fatto con varie ong e anche con funzionari delle UN. Ti danno al massimo 24 ore e poi fuori. Tutto il personale gira con radio e una volta al giorno devono fare un check per vedere che tutto sia in ordine dato che in qualsiasi momentio possono dare l'ordine di rientrare immediatamente alla base per ragioni di sicurezza.

La violenza c'è, ci sono posti dove ancora adesso le UN non possono andare malgrado ci siano campi di rifugiati e il dialogo col governo non è cosa semplice. La ricostruzione di un minimo di tessuto sociale e di convivenza fra amministrazione consuetudinaria e instituzioni statali prenderà ancora molti anni, se mai riusciranno a farcela. La question di fondo è capire la volontà che ci mettano le parti ed è ovvio che chi ha più potere ha più responsabilità e quindi deve fare il primo passo, nel buon senso ovviamente.

Più passa il tempo e più sarà difficile immaginare che gi sfollati abbiano voglia un giorno di tornare in campagna. Questa è una lezione che abbiamo imparato oramai: il cammino è quasi sempre a senso unico, quando esci dalla campagna per andare verso le città, anche se in campi di rifugiati, difficilmente torni indietro dopo, cerchi di sopravvivere in qualche modo, legale o illegale. La campagna, il mondo rurale dappertutto è stato talmente bistrattato che oramai viene sempre più associato a valori negativi, da cui fuggire: in città ci sono le luci, l' acqua, le scuole, i mercati e magari anche un lavoro. Magari poi queste cose le vedi da fuori, ma il sogno che siano lì a portata di mano mentre quando sei in campagna non hai nemmeno il sogno di queste cose, fa sì che le nuove generazioni, particolarmente se hanno già passato 4-5 anni nei campi, non avranno voglia di tornare indietro.
Quindi questo può significare meno pressione sulle terre e, in teoria, una possibilità di risolvere parte dei problemi con i pastori (arabi). Ma in realtà queste due economie, quella contadina e quella nomade erano funzionali una all'altra e distruggendone una l'altra soffrirà ugualmente.

Istituzioni deboli, un quadro giuridico complesso e una sovrapposizione di leggi federali e statali alle quali si sommano le regole consuetudinarie, fanno sì che ci troviamo di fronte al più grande casse-tete (rompicapo) per quanto riguarda la questione risorse naturali e processo di pace.

In teoria cosa si dovrebbe fare è chiaro (almeno a noi): una volontà reale del governo di voler rispettare i diritti storici anche se questo può significare andare contro le aspettative di quei gruppi arabi nomadi che hanno aiutato il governo contro l'insurgenza locale nell'aspettativa di prendersi le loro terre una volta cacciate via le popolazioni locali. Questo è il passo centrale. Senza questa volontà chiara e affermata non si va da nessuna parte. Poi si comincia a lavorare dall'altra parte, con le comunità che non hanno più fideucia nello Stato, per cercar pian piano a mettere assieme delle attività concrete che possano migliorare la loro vita e nello stesso tempo cominciare un lento processo di riconciliazione con le istituzioni, cominciando con quelle tecniche, ministero dell' agricoltura, allevamento, con cui si può stabilire un dialogo tecnico.

Con qualcuno che faciliti questi processi, sia a livello macro che a livello locale, pian piano si potrebbero trovare delle strade per lavorare assieme. Bisognerà fare i conti con variabili più strutturali, quali l'aumento della popolazione, molto evidente anche al di là degli sfollati, in un contesto geografico difficile con risorse limitate e dove il cambiamento climatico comincia a dare segni concreti, con maggiori siccità. Più gente, meno terra e meno acqua, insomma un quadro difficile, ma se riusciamo a mettere radici qui proveremo a far qualcosa in questa direzione.

La foto e' presa sulla scalainterna dell'ufficio FAO, emblematica del persorso che dovremo fare.

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