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mercoledì 30 marzo 2011

Interviste (quasi) impossibili (ripubblico)

questo post é dell'11 luglio 2010. Lo ripubblico dato che siamo in p[iena campagna per il nuovo direttore generale.

All’avvicinarsi delle prossime elezioni per il posto di Direttore Generale della FAO un Giornalista del Canardo Scatenato (CS) ha realizzato questa intervista (quasi) impossibile con uno dei candidati.

CS: Molti anni sono passati da quando i paesi membri imposero una riforma della FAO (eravamo verso il 2008-2010) e adesso, per la prima volta, non solo i governi dei paesi membri avranno il diritto di voto ma anche le organizzazioni contadine ufficialmente riconosciute dall’organizzazione. Scenari nuovi, che portano a nuove candidature, totalmente impossibili con i meccanismi precedenti. Ne approfittiamo per intervistare un outsider che ha deciso di lanciare il guanto di sfida, il Sg. Josuè Dumont di Mazò.
La prima domanda riguarda ovviamente il suo profilo, chi è da dove viene e perché lanciarsi in questa corsa?

JDM: Potrei dire di essere figlio di contadini del sud del mondo e che la voglia di lanciarmi viene dai pochi risultati fin’ora raggiunti da questa organizzazione malgrado i ripetuti allarmi lanciati in questi ultimi decenni. In realtà io sono un Avatar, fuoriuscito da poche ma fondamentali letture. I miei genitori e nonni sono stati: La Geografia della Fame, di Josuè di Castro, L’Afrique Noire est mal partie, di René Dumont, Histoire des agricultures du monde, di Mazoyer e Rudart e infine il Rapporto Lugano, di Susan George. Non ho governi che appoggino la mia candidatura, e nemmeno grosse fortune o compagnie transnazionali che paghino la mia campagna, per cui ho già vinto.

CS. Scusi, ma come sarebbe adire che ha già vinto?
JDM: Nel momento stesso in cui sono costretti a farti spazio per presentare la tua candidatura, che puoi far sentire le tue idee anche ai piani alti, che rompi l’omertà di un potere avvolto su se stesso, ecco, a quel punto non conta il risultato finale, che tanto sappiamo non cambierà il volto dell’organizzazione, ma conta aver mostrato che si poteva fare. Si ricorda quando anni fa la stessa FAO mostrò al mondo intero, ed ai governi del Nord in particolare, nonché alle grosse istituzioni finanziarie, che si poteva discutere di un tema scottante, la riforma agraria, parlandone addirittura con i movimenti sociali più di sinistra? Quella volta, credo sia stato nel 2006, gli assenti ebbero torto marcio, ma si vendicarono subito, chiudendo tutte le porte al dialogo che era aperto con i diseredati del mondo. Ecco, io sono il figlio di ICARRD (International Conference on Agrarian Reform and Rural Development).

CS. D’accordo, allora proviamo a sognare: quali sarebbero le sue parole d’ordine per questa campagna elettorale?
JDM: innanzitutto ricordiamoci che una campagna elettorale non si vince con mille proposte, sullo stile di quel governo italiano di centrosinistra che non finiva mai di promettere questo e quello, salvo poi ritrovarsi, una volta eletto, nell’incapacità di realizzare almeno una di quelle promesse. Per cui partiamo con pochi punti chiari, che servano ad illustrare dove vogliamo andare a parare.
Punto primo: Lotta alla fame nel mondo: la stessa FAO ci ha certificato che abbiamo passato il miliardo di affamati e questo in un periodo storico, prendiamo gli ultimi 20-25 anni, di dominazione assoluta del modello economico capitalista globalizzato. Se questi sono i risultati il nostro ragionamento parte dal DIRITTO DI CRITICARE IL MODELLO DI SVILUPPO ATTUALE, e perciò di poter pensare ANCHE ad altri modelli.
Detto questo, non dimentichiamo che da oltre 60 anni abbiamo la prova scientifica che la questione della lotta alla fame e la lotta contro la cattiva distribuzione delle terre va di pari passo, anzi, la seconda è la variabile indipendente, dalla quale dipende la prima. Questo vuol dire porre al centro del dibattito la questione delle terre e della loro migliore distribuzione, nonché del necessario riconoscimento dei diritti storici delle comunità contadine e delle popolazioni indigene.

CS. Ma si rende conto che questo vuol dire proporre una rivoluzione?
JDM: Leggetevi la dichiarazione finale dell’ ICARRD, sottoscritta da quasi cento paesi membri della FAO. Non lo dico mica io, lo hanno discusso e sono arrivati alla stessa conclusione e loro sono paesi membri. Quella dichiarazione finale non è mica stata fatta dalla Via Campesina. Comunque ricordiamoci che non vedere l’aumento di conflittualità legato alle terre non è un buon modo per spegnere l’incendio. Solo diventerà ancora più ingovernabile, per cui quello che io propongo è esattamente l’opposto di quello che lei dice: non rivoluzione, ma lavorare per abbassare la temperatura di troppi fuochi accesi in giro per il mondo. Che questo sia facile, non l’ho mai detto e non lo dirò mai, ma che non ci siano alternative, questo sì lo posso dire.

CS. D’accordo, allora questo è la premessa, il punto primo, e poi?
JDM: Esatto, questa è la premessa: una migliore distribuzione delle terre, un riconoscimento dei diritti delle comunità locali, delle popolazioni indigene, in realtà non è nemmeno una premessa completa. Se vogliamo dirla tutta, al centro di questa proposta, di questo punto primo, va messa la questione di Genere: se non capiamo che si parte prima dai diritti delle donne alla terra, e poi anche agli uomini, non andremo da nessuna parte. Basta usare la dimensione di genere come un contentino da mettere sulla torta; da lì si parte: migliore distribuzione delle terre e dei diritti partendo dalle donne. Anche questo sarà difficile e avrà molte resistenze. Ma andiamo a vedere chi assicura l’essenziale della produzione di autosufficienza alimentare nel sud del mondo: sono gli uomini o le donne? Non credo ci siano molti dubbi su questo. Le resistenze le avremo da molti governi, di destra come di sinistra, ma anche dai lider delle comunità locali, poco abituati a dinamiche democratiche all’interno delle comunità che loro comandano. Per cui, pragmaticamente, non lanceremo proclami di fare rivoluzioni, ma saremo fermi su questo: dialogo e apertura ma avendo chiaro che bisogna cambiare le strutture agrarie, e soprattutto i rapporti di genere al loro interno.

CS. E il secondo punto?
JDM: Il nocciolo duro è rappresentato dal mettere al centro della proposta quella che chiamiamo l’agricoltura di base familiare. Famiglia nucleare, famiglia estesa, tanti sono i modelli, per cui non restringiamo il dibattito all’idea della famiglia che ci facciamo nel nord del mondo. Si parte da lì perché la storia dello sviluppo agricolo ha dimostrato, nel corso di molti secoli e nei più svariati contesti geografici, che questa è la migliore organizzazione sociale e produttiva. Per la prima cosa che faremo sarà di dedicare un anno intero a questo tema, riprendendo una iniziativa proposta da una serie di organizzazioni di base negli ultimi anni. Agricoltura familiare, per chi l’ha studiata, vuol dire flessibilità organizzativa, attenzione alla qualità del prodotto, conoscenza del mercato, ma vuol dire anche una realtà molto semplice: attaccamento al territorio, a una cultura del fare legata alle realtà locali. Per cui dovremo incentivare il lavoro di assistenza tecnica ai governi interessati a promuovere questo tipo di agricoltura. Guardiamo il caso del Malawi di questi ultimi anni: con un attivismo da parte del governo, in favore di questo tipo di agricoltura, in pochi anni il paese è passato da situazioni di deficit cronico a una di esportatore. E questo contravvenendo tutti i consigli che le grandi organizzazioni e le grandi banche e donanti avevano dato (o ordinato) al governo. Situazione fragile, ancora non sostenibile, ma comunque conferma che qualcos’altro si può fare.

CS. Sbaglio o non ha ancora parlato di agricoltura biologica?
JDM: Esatto. Agricoltura familiare non vuol dire necessariamente agricoltura biologica e nemmeno agricoltura “conservacionista” o “zero tillage”; parlavo prima di modelli diversi e aggiungo adesso una dose di pragmatismo. Non tutti gli agricoltori familiari sono interessati a pratiche di questo tipo e nemmeno ad un’agricoltura biologica. Questo però non esclude una scelta di campo: la nostra sarà a favore di queste agricolture, rispettose dell’ambiente e tendenti a diventare più biologiche possibile. Il legame con le politiche nazionali nonché con gli accordi internazionali è ovvio: non possiamo sprecare delle parole d’ordine come “agricoltura biologica” se non abbiamo preparato il terreno per questa scelta. Per cui bisognerà spingere ai livelli superiori, cercare le alleanze necessarie, ma avendo chiaro qual è il nord ella bussola. Agricolture più biologiche avranno delle ricadute anche in termini di salute nonché di rivalorizzazione di territori e prodotti che la gente vorrà andare a conoscere e praticare. Saranno quindi possibili (e sottolineo possibili) motori di uno sviluppo territorialmente equilibrato.

CS. In questi anni si è parlato molto di territorialità, sia a livello di governi che di grandi spazi regionali, ma cosa intende con questo termine?
JDM: Come per molte altre parole nel corso degli anni la tendenza è stata quella di svuotarle del significato originario in modo che diventassero delle buzz words, parole vuote che tutti fingevano di capire: caso tipico, la “partecipazione”, oppure la “sostenibilità” giusto per citarne alcuni. Con la territorialità sta succedendo la stessa cosa. Le spiegherò cosa intendo io e come intendo applicarla, nel modello che ho in testa per questa organizzazione. I territori sono spazi aperti, immagini un mare, un oceano, dove tanti pesci, tanti pescatori, tanti turisti, tante barche passano una sopra l’altra, scontrandosi, litigando, mettendosi d’accordo sulle rotte oppure no e quindi scontrandosi. Ecco, in questi spazi, nel momento in cui lei, col suo costumino da bagno entra in acqua, non è fondamentale conoscere il limite del mare, ma è fondamentale saper nuotare ed avere una buona resistenza. Ecco, per me i territori sono questi spazi aperti, dove tanti attori, rurali come urbani, competono per risorse naturali, terre, foreste, acque, sempre più limitate. Dobbiamo quindi lavorare non tanto a delimitare i territori ma lavorare sulla creazione di regole condivise e formare gli attori al rispetto di queste regole, per cui possano negoziare invece di confliggere. Possiamo farlo da soli? Ovviamente no, tante altre agenzie dell’ONU lavora no su temi vicini per cui è una ragione di più per avvicinarci e lavorare assieme.

CS. Vuol dire forse andare oltre la tradizionale divisione rurale urbana?
JDM: Sì, definitivamente. Al giorno d’oggi ha sempre meno senso questo tipo di catalogazione. Serve per sostenere l’idea che la popolazione stia diventando sempre più “urbana” e quindi non ci sia più bisogno di preoccuparsi di questi “rurali”, che diventano residuali nel discorso dominante. Nel nostro discorso le priorità cambiano. Prenda l’esempio di una grande catena di supermercati, tipo la Carrefour: difficile pensare alla Carrefour come a un attore rurale, ma in realtà è lei che decide il destino di migliaia di contadini nel mondo intero, trasforma territori, decide cosa si produce e a che prezzo e tutto per vendere nelle zone urbane a prezzi sempre più bassi. Nella nostra ottica non diciamo che siamo contro Carrefour, ma diciamo che non possiamo ragionare come se nelle zone rurali dove lei interviene, dovessimo far finta di nulla. Un approccio territoriale, centrato sugli attori, vuol dire cercare spazi di dialogo e negoziazione fra gli uni e gli altri. Chiaro che i nostri punti fermi restano quelli detti precedentemente.

CS. Parliamo da molto, ma non l’ho sentita parlare di acqua.
JDM: Le dicevo prima che una campagna elettorale non può basarsi su mille temi e deve cercare di andare alle priorità, o almeno a quelle che il/la candidato/a pensa siano le priorità del momento. Quando partivo dalla centralità del riequilibrio delle strutture agrarie e dei diritti, parlavo di terra per parlare di risorse naturali. La parola terra si porta dietro acqua, foreste, per cui un approccio basato sui diritti, partendo da quelli che a quei diritti non hanno accesso, sarà il punto di partenza. Per capirci, prima di parlare di aspetti tecnici dell’acqua, si parlerà di diritti, con un approccio basato sul dialogo e negoziazione. Un approccio basato sui diritti vuol dire anche riconoscere il diritto alla libera impresa e il diritto al profitto, per capirci. Che poi questo debba applicarsi al caso dell’acqua, ovviamente è soggetto a discussione e, nel mio modo di vedere le cose, non dovrebbe essere il caso. Parlare d’acqua vuol dire parlare anche di pesca, e anche lì ritroviamo la grande domanda del posto che la pesca artigianale ha diritto di rivendicare rispetto alla pesca industriale, e ritorniamo quindi a parlare di diritti al pari di quanto si diceva prima per l’agricoltura. E un approccio basato sui diritti vale anche per le foreste: il modello non può essere quello dell’appropriazione privata da parte delle grandi imprese della maggior parte delle foreste. Sono beni comuni, da gestire dalla mano pubblica, e con un ruolo fondamentale che deve esser giocato dalle comunità che vivono e dipendono da queste foreste e dai prodotti, lignei e non, che da esse si possono trarre.

CS. Ma come pensa di poter mettere in atto questo programma? Non mi sembra che queste siano le priorità attuali dei paesi membri soprattutto quelli più importanti, e senza l’appoggio loro non si va da nessuna parte.
JDM: c’è del vero in quel che dice, e ovviamente in una intervista breve devo andare all’essenziale del programma. La questione è quella di capire chi deve decidere l’agenda di una organizzazione come la nostra. Abbiamo avuto due direttori generali, un libanese e un senegalese, che hanno cercato di porre la questione della sicurezza alimentare al centro del dibattito, cercando di non urtare troppo i paesi potenti dell’organizzazione. I risultati sono lì, davanti a tutti, col miliardo e passa di cui parlavo all’inizio. Non sono riusciti a determinare l’agenda dei lavori per cui l’influenza dell’ organizzazione è andata perdendosi nel corso degli anni. A questo si aggiunga un errore fondamentale commesso da ambedue, che è stato di non appoggiarsi realmente sul corpus tecnico della organizzazione. Non sui capi, direttori o capi dipartimento, che rappresentano la gestione ma non la memoria tecnica e chi ci mette la faccia tutti i giorni; parlo di quel migliaio di tecnici, professionisti seri, sempre più con contratti precari, la cui vincolazione con l’organizzazione diventa sempre più problematica. Quella è la nostra base e quelli sono gli alveoli polmonari che scambiano l’ aria fra polmoni e sangue: la nostra credibilità parte da loro. Farli sentire importanti, decisivi nella implementazione delle politiche dell’organizzazione è la chiave di volta della proposta. Se loro non prendono in mano queste proposte e non le portano avanti nelle migliaia di progetti che seguono ogni giorno, nelle decine di migliaia di contatti che hanno con i governi, le organizzazioni contadine e gli altri attori dello sviluppo, non c’è futuro per le mie proposte. Chi deve esserne parte costituente sono loro, per questa ragione esiste un margine di flessibilità nelle idee che ho proposte: non posso pensare di imporle con la forza perché altrimenti mi diranno di sì, in quanto direttore generale, ma poi continueranno a fare il loro lavoro quotidiano e non cambierà nulla. Bisogna quindi partire per una intensa campagna interna, parlare, ascoltare, e molto, ragionare assieme, anche perché ci saranno altre proposte e altre idee, magari contrarie. Fare la sintesi sarà compito del livello gestionale, non solo mio, ma deve esser fatta nel rispetto delle diversità, lasciando le porte aperte e pensando a meccanismi di retro alimentazione che funzionino. Bisogna rompere questa diarchia fra una FAO di sopra e una FAO di sotto. Ricreare fiducia, dialogo e credibilità sarà la misura della riuscita delle proposte precedenti. Se diamo l’esempio a casa nostra, allora sì potremo andare a bussare a casa degli altri.

CS. Tutto bello, ma e i soldi?
JDM: Da quando conosco questa organizzazione sento sempre e solo parlare di soldi che non ci sono. Allora diciamola tutta: meglio lottare per dei valori veri, quelli fondanti della nostra organizzazione e poi mettere gli altri con le spalle al muro e vedere se i soldi non arriveranno. Che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Essere troppo teneri con chi detiene il potere vero in questi temi non serve molto. Bisognerà essere più duri, anche a costo di perdere la battaglia. Ma almeno l’avremo giocata, piuttosto che andare lentamente sul viale del tramonto. Dovremo lottare per portare l’ agricoltura fuori dall’organizzazione mondiale del commercio, e sicuramente ci faremo molti nemici, ma credo anche molti amici. Ricordatevi sempre che quando ci sono le idee, poi dei soldi si trovano. E comunque ridurre la questione della fame e povertà nel mondo a una questione di soldi, vuol dire riconoscere un potere centrale a quelle organizzazioni finanziarie che ci hanno portate alla crisi del 2008. Sono i governi che devono riprendersi in mano le responsabilità dei loro paesi. Ma non governi chiusi, che dettano legge, ma governi aperti al dialogo, che rispettino di più le opinioni altrui e quindi accettino di partire su approcci più centrati sul dialogo e negoziazione. Ma anche questo stava già scritto nella dichiarazione finale dell’ ICARRD, andate a leggerla e troverete tutto il programma delle cose da fare e soprattutto come farle.

CS: Restano ancora molti temi, ma per una questione di spazio e tempo dobbiamo chiudere qui. Vuol fare un’ultima considerazione?
JDM: Possiamo ricordare la logica che sottintende a questo programma: mentre il meccanismo che crea sottosviluppo ha padri ben conosciuti, se vogliamo venirne fuori bisogna partire da una costruzione congiunta, partendo dalle diversità locali, di produzione, di tecniche e di prodotti, rispettando di più l’essere umano che deve tornare al centro del processo. Questo vuol dire lavorare molto sullo spirito di squadra perché non si può pensare a un direttore generale come a una specie di dio. Vuol dire parlar chiaro ai membri di questa organizzazione, che non sono solo i governi, ma tutti i contadini e contadine del mondo per dir loro come questi cambiamenti dipendano da una volontà reale, che non possiamo garantire perché ogni governo va rispettato e dipenderà in primis da loro se si cambierà o no. Ma anche da meccanismi trasparenti di controllo in cui sia possibile associare anche altri attori, soprattutto quelli la cui parola ha sempre contato poco, le organizzazioni contadine e i movimenti sociali. Ma dipenderà anche da quella che chiamo la “moral suasion” che potremo esercitare nei confronti dei paesi membri, per spingere su quei principi che abbiamo illustrato prima. Cambiare la struttura agraria per cambiare, un po’, il potere e la sua ripartizione, e tutto questo per evitare non solo le future crisi alimentari ma per ridare un senso a questo stare assieme su questa unica Terra che abbiamo a disposizione.

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