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venerdì 9 marzo 2018

Come un mantra: fare le riforme



Le discussioni per il futuro governo non sono (ufficialmente) nemmeno cominciate, ma il mantra del “fare le riforme” gira già a ritmi incandescenti.

Alla fine della fiera importa relativamente chi vada al governo, l’importante è che l’agenda delle riforme sia mantenuta e, anzi, realizzata completamente.

La memoria non è forse più quella di una volta, ma da quando, piccolino, ho cominciato a leggere i giornali che venivano portati a casa (principalmente Il Giorno nei primi anni 70, seguito poi da La Repubblica quando venne fondata) due frasi mi rimbombavano frecuentemente nelle orecchie: “siamo in crisi” (evidenziato da una inflazione forte e da un debito pubblico elevato) e “bisogna riformare il sistema”. All’epoca c’erano anche quelli che proponevano, più che riformarlo, di mandarlo all’aria quel sistema che veniva visto come foriero di povertà e disuguaglianza per tanta gente (devo dire che io ero fra quelli, e non ho cambiato idea fino ad oggi).

Senza entrare troppo nei dettagli, mi pare che le decine di governi che si sono susseguiti in questi decenni di riforme ne hanno fatte parecchie, ma sembra sempre che non siano mai abbastanza. Prendo, a caso, il primo articolo trovato guglando nella rete: pubblicato (febbraio 2017) dal Sole 24 ORE, le cui origini ideologiche sono chiare e dichiarate, il giornalista scrive:

“Il sistema politico, focalizzato sulla conservazione dei privilegi, genera sentimenti populisti. Strutture di potere costituito ostacolano la meritocrazia e la propensione al rischio. La frattura tra Nord e Sud rimane profonda. Il PIL pro capite è bloccato al livello di fine-1990. La crescita è lenta […]

Negli ultimi tre anni, il governo Renzi ha annunciato molte riforme, ma ne ha implementate poche. Nonostante un terzo delle leggi sia stato approvato con voto di fiducia (al ritmo di 1,97 volte al mese), nessuna delle riforme promesse (pubblica amministrazione, sistema fiscale, mercato del lavoro, settore bancario, et alia) è stata attuata. La legge sulle banche popolari e quella in materia di pubblica amministrazione si sono rivelate inadeguate.”

Insomma, a leggere questo specialista, l’Italia stava messa male con le riforme, ed ecco quindi la lista delle cose da fare:

“1) promuovere la crescita con politiche fiscali anticicliche – preservando la stabilità macro – e diversificare ulteriormente l’economia;
2) aumentare la spesa in infrastrutture e istruzione, attraverso partenariati pubblico-privato (public-private partnership, PPP);
3) ridurre le tasse, soprattutto sull’impiego, per favorire la creazione di posti di lavoro;
4) promuovere la ristrutturazione del sistema bancario e migliorare le procedure concorsuali per i crediti deteriorati (non-performing loans, stimati a 360 miliardi di euro, quasi un quinto del PIL);
5) riformare il sistema legislativo e la legge elettorale;
6) ridurre le rendite di posizione, favorire la meritocrazia, e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione;
7) stimolare la crescita della produttività, eliminando barriere all’ingresso – in particolare nel settore dei servizi;
8) allineare i salari con la produttività e rendere il mercato del lavoro più flessibile;
e 9) rendere più agile il sistema giudiziario e semplificare le procedure di liquidazione.”

Lo specialista chiudeva scrivendo: il tempo stringe.

Passano pochi mesi e scopriamo, sullo stesso giornale, che, Bruxelles dixit, “sulle riforme Roma meglio di Berlino”http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-05-22/bruxelles-rivela-sulle-riforme-roma-meglio-berlino-191829.shtml?uuid=AEpCpvQB

Insomma, potevamo dormire tranquilli, o no?

Una volta che abbiamo capito che siamo parte dell’Unione Europea, tanto vale andare a Bruxelles (e Francoforte) per capire cosa vogliono da noi quelli dei piani alti. Prendiamo un altro giornale filoindustriale, La Stampa: “Bruxelles avverte i partiti sulle promesse elettorali: serve continuità nelle riforme”http://www.lastampa.it/2018/02/07/esteri/bruxelles-avverte-i-partiti-sulle-promesse-elettorali-serve-continuit-nelle-riforme-GPzsdILGleCif3ca4PdBXI/pagina.html.

Se poi qualcuno non avesse capito l’antifona, ecco arrivare Draghi a ripetere:“Avanti con euro e riforme, l’Italia eviti instabilità” 

Quindi, a Bruxelles e Francoforte sanno cosa è buono per noi. Non importa cosa votano o cosa vogliono gli italiani. Parafrasando il defunto Agnelli, quello che è buono per Bruxelles e Francoforte è buono per l’Italia.

Ma ne siamo proprio sicuri?

Il primo compito da fare, e velocemente, è il famoso DEF (il documento di indirizzo del bilancio dello stato): prima ancora che i nostri eletti abbiano aperto bocca, ecco ancora Bruxelles a farsi viva: “In poche ore i vertici UE, Moscovici e Dombrovskis, hanno posto il nostro paese di fronte alla brutale realtà delle politiche di austerità. L’ Italia, con Croazia e Cipro, hanno detto, è il paese con i conti pubblici messi peggio e con la crescita più bassa. Inoltre la spesa pensionistica è aumentata troppo. Quindi il nostro paese deve continuare nelle “riforme” liberiste, cioè nuovi tagli a stato sociale e diritti, e neppure sognarsi di mettere in discussione Jobsact e Fornero. A conclusione del loro diktat i due burocrati europei hanno poi affermato di avere piena fiducia in Mattarella, confidando che il presidente saprà dare all’Italia un governo stabile e osservante delle politiche della UE.” http://contropiano.org/news/politica-news/2018/03/08/ue-il-governo-lo-fara-mattarella-e-obbedira-a-noi-e-qui-tutti-zitti-0101626


Insomma, se abbiamo capito bene, bisogna fare le riforme (quelle decise lassù) per rendere più competitivo il sistema. Perfetto. Poi magari ci capita di leggere anche altre analisi che, una dopo l’altra, indicano una verità diversa, più scomoda ammettere. Il caso emblematico è quello che occupa le prime pagine dei giornali in questo periodo: il caso “Embraco”, lo stabilimento piemontese minacciato di delocalizzazione in Slovacchia, contro il quale si sta battendo il nuovo eroe italiano, il ministro Carlo Calenda.

Ma il caso Embraco, come tantissimi altri prima di lui, non hanno nulla a che fare con la produttività operaia, ma alle politiche fiscali di dumping che i vari paesi (liberisti) europei, stanno facendo uno sulla pelle dell’altro. Le aliquote per le tasse sulle imprese, ci ricordano due giornalisti dell’Espresso, variano dal 33 percento della Francia al 12,5 di Cipro, fino al 10 percento della Romania.

Questo gara di regali fatti alle multinazionali e al settore impresarie, europeo e non, ci costa una montagna di soldi. Soldi pubblici che non entrano nei bilanci e che obbligano quindi i governi a seguire i diktat di Bru-Fra. Ci ha pensato l’Icrict a stimare quanti soldi si potrebbero recuperare per somme evase o eluse al fisco: 500 miliardi di dollari l’anno (leggere il report:https://www.taxjustice.net/2018/02/07/icrict-roadmap-taxing-multinationals/)

I giornalisti dell’Espresso dicono trattarsi di una proposta globale e radicale, ma che potrebbe avere un primo banco di prova proprio in Europa. Sullo stesso giornale però viene intervistato l’economista Piketty che, alla domanda se sia ottimista riguardo la probabilità di una buona riforma della tassazione delle multinazionali in Europa, risponde: Il problema è che finora non si è vista alcuna proposta concreta sul come organizzare una eurozona più democratica e come portare maggiore giustizia fiscale e più investimenti in Europa.

Che strano, non trovo nessun plauso a queste riforme, ultranecessarie, da parte dei giornali liberisti di cui parlavo prima, Sole, Stampa e quant’altro, ma nemmeno dai piani alti di Bru-Fra. 

Ecco di cosa avremmo bisogno: di forze politiche capaci di articolare, assieme ad altri paesi europei (prima, e mondiali poi), assieme a organizzazioni sociali e ai cittadini europei, una posizione forte e chiara sulla necessità di smetterla con questi regali fiscali. Partiti politici che abbiano chiaro dove sono i soldi che ci mancano, consapevoli che o si cambiano, drasticamente, le regole del gioco, oppure chi vada al governo, siano i 5S, i leghisti o anche mio nonno in carriola, avranno le mani legate come tutti gli altri per cui fra qualche anno ci troveremo qui a dire che “non hanno fatto nulla”.

Il mantra delle riforme ci pervade. Ma quella riforma che faccia pagare più tasse e regali meno soldi alla finanza (ricordate della Tobin Tax?) e riduca (non dico nemmeno elimini…) il dumping fiscale attuale, in modo che le industrie comprano sul serio in nome di produttività, qualità del prodotto e quant’altro, di questo non si sente parlare. E non trovi uno dei “vincitori” delle elezioni di domenica, che dica una parola su questo. 

Di Maio già lavora al DEF ci annuncia un giornale in questi minuti: (http://www.finanzaonline.com/forum/arena-politica/1843120-di-maio-gia-lavora-al-def-primo-obbiettivo-stop-aumento-iva.html). Ma quale DEF, quello voluto da Bru-Fra o qualcosa che indichi le vere priorità di medio periodo? La famosa visione che, secondo lo specialista del Sole 24Ore manca ai politici italiani? 


Scommettiamo che verrà fuori un prodotto che piacerà a Bru-Fra? Ma allora ricordiamoci che, anche questa legislatura, nascerà morta, morta di speranza e morta di idee.  

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