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venerdì 2 marzo 2018

Le Direttive Volontarie (VGGT), un bilancio personale



Con questo titolo (The VGGT five years on - are they changing lives?) si apriva il bollettino n. 9 del programma Legend, pubblicato lo scorso gennaio sul Land Portal. Adesso che siamo oramai in vista del sesto anniversario (il prossimo mese di maggio), ho deciso di dire anch’io la mia, avendo lavorato con l’unità tecnica (servizio/divisione) che, con nomi diversi, si è occupato di questi temi alla FAO per una trentina d’anni.

Per poter capire il giudizio che esprimo alla fine, bisogna inquadrare storicamente il periodo in questione e le iniziative in corso prima che si scegliesse questa strada rispetto ad altre possibili.

La questione fondiaria fu una dei temi principali discussi fin dalla Conferenza di Hot Srings (maggio-giugno 1943) dove si decise la creazione della futura FAO: come mi ricorda un vecchio collega e amico “... the Conference adopted recommendations on:  ...land tenure and farm labour ...  development and settlement of land for food production; ... “. 

Malgrado questa chiara presa di posizione, furono quegli stessi americani e inglesi a ridurre immediatamente il margine di manovra della FAO, negando nelle prime due conferenze costitutive dell’organizzazione (Washington e Copenhagen nel 1946) ciò che veniva richiesto dal Direttore Generale dell’epoca lo scozzese John Boyd Orr (di cui troviamo un busto in bronzo nella parete di sinistra nell’entrata della FAO). Orr chiedeva un mandato chiaro (e i mezzi adeguati) che permettessero alla FAO di intervenire nelle politiche di produzione e di scambi internazionali di derrate alimentarie, così da poter fungere da calmiere in caso di crisi (avendo a disposizione delle riserve fisiche di grano da immettere sul mercato) e poter quindi toccare direttamente il tema delle politiche nazionali di riforma agraria, strumento per eccellenza delle produzioni agricole nazionali.

Le ragioni politico-ideologiche che portarono a questo cambio di rotta convinsero Boyd Orr a rinunciare alla sua ricandidatura che gli venne proposta da inglesi ed americani nel 1948, con parole che risuonano profetiche ancora oggi: “questa non è la FAO per cui tanto ho lottato.”

L’accesso alla terra essendo uno specchio del livello di democrazia di un paese, non stupisce che un tema così carico di tensione politica abbia suscitato passioni forti, scontri e veti da parte dei paesi dominanti nelle Nazioni Unite. Per queste ragioni legate alla sensibilità del tema, venne creato un solo ed unico servizio (per l’insieme delle agenzie ONU dell’epoca) delle strutture fondiarie (antenato del Land Tenure service di oggi) con il compito di studiare, mettere a punto la formulazione di politiche atte a promuovere delle strategie fondiarie adeguate fra cui, appunto, la riforma agraria.

Tutto il periodo del secondo dopoguerra si è caratterizzato per i vari tentativi di “riforma agraria” fatti per promuovere migliori condizioni sociali ed economiche per le classi più povere, ma molto spesso fatte per evitare rischi di contagiose “comunista” dopo le riforme agrarie della Russia e di Cuba. Tanto i paesi del blocco occidentale come quelli del blocco orientale promossero queste parole, con intenti e risultati diversi. I rapporti richiesti, presentati e discussi in seno alle Nazioni Unite sono moltissimi nel periodo che va dagli anni cinquanta alla fine degli anni sessanta. Fu in quel periodo che venne realizzata una prima conferenza internazionale a Roma (1966) per discutere di temi legati alla amministrazione della terra. 

Il lascito di quella conferenza non fu tra i maggiori ricordi della FAO, tanto che la successiva Conferenza Mondiale sulla Riforma Agraria e lo Sviluppo Rurale (WCARRD nella sigla inglese), realizzata a Roma nel 1979 per volontà espressa del direttore generale dell’epoca Edouard Saouma, passò alla storia come la “prima” conferenza sul tema. 

L’intenzione della dirigenza FAO dell’epoca era chiara: la FAO doveva giocare un ruolo politico di primo piano tanto nello stimolare come nel mettere a disposizione esperienze tecniche, consigli politici e quanto altro fosse necessario ai governi dei paesi membri per muoversi nella direzione di una migliore distribuzione delle terre. Sfortuna volle che pochi mesi dopo la realizzazione di questa Conferenza, e quando il Piano di Azione iniziava ad essere messo in opera, entrassero sulla scena mondiale due leader neoliberalismo particolarmente ostili a qualsiasi ruolo dello Stato nella gestione interna dei paesi: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. L’effetto che questo produsse fu la scomparsa del tema della riforma agraria dall’agenda internazionale, sostituita dal nuovo Dio Mercato che la rinvigorita Banca Mondiale suffragata dagli apostoli del Fondo Monetario si premunivano di proporre a destra e a manca.   

Negli anni novanta venne eletto un nuovo direttore generale, il senegalese Jacques Diouf che, come prima misura, decise di eliminare tutti ciò che rimaneva dei programmi d’azione della WCARRD, rimpiazzandoli per un pomposo Programma Speciale di Sicurezza Alimentare che, malgrado la retorica e gli sforzi fatti dal management FAO, rimase per lo più senza risultati tangibili dopo una quindicina d’anni di messa in opera.

Che il Direttore Generale volesse marcare il suo periodo con una iniziativa “personale” (e quindi dovesse chiudere i conti col passato, come sicuramente gli chiedevano i paesi donatori) fa un po’ parte del gioco. Quello che si spiega meno è la scelta consapevole di far lavorare assieme molti servizi tecnici in questo Programma Speciale, con la sola eccezione del nostro servizio che si occupava delle strutture fondiarie. Forse il fatto che, nel momento di eleggere Diouf come DG, venisse anche proposto la cancellazione pura e semplice (da parte americana) del Servizio della Riforma Agraria e che, alla fine, dopo lunghe battaglie interne questo sopravvivesse ridimensionato a Servizio delle Strutture Fondiarie, aiuta a capire quale fosse il modo dell’epoca.

Paesi importanti come le Filippine e il Brasile avevano appena ritrovato una democrazia parlamentare (1985) e in ambi i casi le pressioni sociali obbligarono i nuovi governi a mettere la riforma agraria tra le priorità essenziali. Nel resto del mondo i problemi legati alla terra aumentavano dappertutto (in modo anche ben diverso, ma con lo stesso problema di fondo della richiesta di democratizzazione dell’accesso, al quale si rispondeva per lo più con il mantra del “mercato”).

Fu questo un periodo di lotte anche interne molto intenso. Del nostro impegno in particolare in appoggio al tema riforma agraria in Brasile ho scritto recentemente su questo blog (https://paologroppo.blogspot.it/2018/02/la-importancia-de-la-agricultura.html) ricordando anche le forti resistenze interne che si manifestavano al nostro approccio considerato troppo conciliante con i movimenti contadini e poco in linea col diktat della Banca Mondiale tradotto in pratica dal nostro Direttore di Divisione e dal Capo Servizio. Va detto grazie non solo al responsabile del Dipartimento della Riforma Agraria delle Filippine, ma anche e in special modo al Ministro brasiliano dello sviluppo agrario Miguel Rossetto, di aver spinto politicamente perché il tema della riforma agraria (con questo nome politicamente carico di significati e non con la terminologia restrittiva anglosassone di land tenure reform) ritrovasse uno spazio di primo piano all’interno del mondo politico della FAO, cosa che si concretizzò con la “seconda” Conferenza Internazionale sulla Riforma Agraria e lo Sviluppo Rurale (ICARRD dal nome inglese) che si sarebbe tenuta nel 2006 a Porto Alegre, Brasile.

All’epoca la FAO portava avanti un grosso progetto in appoggio al programma di riforma agraria filippino e per parecchi anni toccò a me il compito di responsabile tecnico alla FAO. Le discussioni con i responsabili nazionali e con le ONG attive nel settore portarono ad organizzare degli incontri con il capo servizio della FAO ogni qualvolta uno di loro veniva in missione a Roma. Le resistenze da parte interna furono tali da convincerci a cercare un’altra strada. Era evidente per il grumo di interessi che appoggiavano il mio capo d’allora che questo tema non doveva uscire dall’ambito nazionale, in modo da evitare di far da grancassa a livello mondiale e magari addirittura criticare le politiche che quel grumo di interessi (legate al Dio Mercato) portava avanti nei paesi del sud. Politiche che mentre da un lato spingevano per una privatizzazione dei servizi dell’amministrazione fondiaria, dall’altro spingevano perché si liberassero spazi per un mercato fondiario dove i più abili potessero acquisire le migliori terre. Di fatto creando le basi per il successivo movimento di accaparramento delle terre conosciuto come Land Grabbing.

Approfittando del fatto che, parallelamente al programma filippino, mi occupavo anche di un programma simile in Brasile, organizzai una triangolazione fra i due paesi in modo che la richiesta di un intervento FAO ai massimi livelli andasse oltre il blocco del capo servizio e potesse arrivare direttamente al Direttore Generale. La cosa funzionò e fu così che grazie alla spinta di due paesi importanti del sud, appoggiati in pieno dal DG Diouf, la decisione di organizzare la ICARRD venne presa, malgrado le resistenze interne che si organizzavano, capitanate da alcuni settori ultra conservatori presenti nell’ufficio stesso del direttore generale e quei settori anglosassoni di cui parlavo prima. Un aiuto ulteriore venne dato dalla conferenza mondiale sulla riforma agraria che una serie di organizzazioni della società civile e varie università avevano organizzato a Valencia nel dicembre del 2004. La FAO stava brillando per la sua assenza, dato il disinteresse mostrato dal nostro capo servizio. Fu solo all’ultimo minuto che il DG venne informato di questa iniziativa e decise di mandare un rappresentante (io stesso) alla conferenza. Anche da quei settori venne quindi un invito pressante perché il tema fosse portato ancora più in alto nell’agenda, e questo compito spettava alla FAO.

Non fu un’operazione semplice perché il DG (forse non del tutto convinto di tale operazione) decise di far approvare la sua decisione da tutti i comitati tecnici e politici responsabili: per primo quello dell’agricoltura, in seguito il Consiglio e infine la Conferenza generale. In quel modo però divenne chiaro che si trattava di un posizionamento al massimo livello da parte della FAO e non una decisione estemporanea del suo Direttore Generale. Il comitato organizzativo, capitanato dal nostro nuovo direttore di divisione, superiore gerarchico del capo servizio, lavorò in modo molto aperto, inclusivo e democratico, cosa che da un lato venne plaudita dai movimenti contadini (La Via Campesina) ma dall’altro venne criticata (sotto traccia, come sempre) da parte della Banca Mondiale la quale pretendeva di avere un ruolo chiave in questo tema e nel contempo limitare al massimo la partecipazione dei movimenti sociali.

I paesi del nord decisero di inviare delegazioni di basso livello, a testimonianza che si giocava una partita politica e non tecnica. La Banca Mondiale non partecipò, mentre tutti gli altri, dai governi dei paesi membri, fino ai movimenti contadini e ai vari esperti, tutti furono concordi nel ritenere ICARRD come un segnale molto importante mandato dalla FAO per gli anni a venire. 

Non si trattò di una conferenza ideologica, al contrario la FAO mise sul tappeto, attraverso i vari documenti preparatori, non solo un allarme per la situazione mondiale ma anche una proposta di approccio metodologico basata sui principi del dialogo e della concertazione. Fra i risultati positivi ottenuti da questa conferenza va ricordato il lancio mondiale della piattaforma landtenure.info (poi sviluppatasi ulteriormente come landportal.org, rappresentando oggi uno dei maggiori hub di informazioni legate al tema terra), nonché il rafforzamento delle alleanze con ONG/OSC (prima di questa conferenza era un dialogo quasi inesistente e che solo negli anni a venire si sarebbe formalizzato grazie allo stimolo della dirigenza attuale, nonché l’appoggio fornito a una serie di progetti di terreno.  

Il successo di ICARRD venne visto fin da subito come un rischio serio da parte dei paesi del nord i quali reagirono immediatamente. Poche settimane dopo la chiusura dei lavori, e quando si stavano iniziando le discussioni sul come concretizzare un programma di azioni per gli anni a venire, rappresentanti dei paesi ricchi vennero alla FAO mettendo sul tappeto le loro condizioni: un assegno a molti zeri per occuparsi del nuovo tema alla moda: il cambio climatico (e per il quale la FAO non aveva nessun mandato specifico, dato che esiste una agenzia ONU per l’ambiente), purché si mettesse una pietra sopra a qualsiasi idea di programma d’azione per il post-ICARRD.

Due parole devono essere spese su come intendevamo agire per il post-conferenza. I rapporti di forza mondiali erano abbastanza chiari, e contrari a qualsiasi azione strutturale che democratizzasse l’accesso alla terra e altre risorse naturali. Di conseguenza bisognava evitare di proporre delle azioni a livello globale, tanto per le ragioni suddette come per la ovvia difficoltà a reperire fondi (che per la maggior parte vengono dai paesi ricchi del nord). Iniziammo quindi a discutere sull’opportunità di far crescere delle iniziative già in corso, basate sui principi del dialogo e negoziazione, in modo da costruire sull’esistente e far conoscere progressivamente sia l’approccio sia i risultati che, lungi dall’essere rivoluzionari, per lo meno permettevano di aprire la discussione anche a livelli politici con possibili interventi legislativi a favore dei più poveri. 

Era un approccio graduale, riformista, certamente non rivoluzionario, basato sulla ricerca di alleanze locali, tanto a livello di funzionari governativi come di università, ONG e altri attori, e che apriva una porta anche al dialogo con il settore privato, quello meno ideologico. Legavamo anche il tema della riforma agraria a quello più amplio della agricoltura familiare, così come avevamo fatto per anni in Brasile (vedi ancora: https://paologroppo.blogspot.it/2018/02/la-importancia-de-la-agricultura.html). 

La questione della fortissima asimmetria di potere fra noi, quattro gatti della FAO, alcuni colleghi dell’IFAD e una parte dei movimenti contadini, rispetto agli oppositori che avevamo di fronte (a cominciare dalla Banca Mondiale che non vedeva di buon occhio la riapertura del tema della riforma agraria nonché di tutti quei paesi membri della FAO che pochi anni prima avevano approvato la derubricazione del Servizio della Riforma Agraria a Servizio della Struttura Fondiaria, segnale politico chiaro voluto dagli Stati Uniti per togliere il tema dall’agenda internazionale, per finire con quel grumo di interessi interni, in posizioni importanti dentro la stessa nostra organizzazione, nello stesso ufficio del Direttore Generale, vari Capi Servizio nei temi legati alla terra e allo sviluppo rurale) era la stella polare che ci guidava.

Tutto questo non fu però sufficiente. Il peccato originale di aver tirato dentro la discussione anche il movimento della Via Campesina, fece sì che venissimo additati come dei pericolosi comunisti. Sta di fatto che, coerente con il suo interesse superficiale al tema terra, il DG accettò i milioni offerti e del tema ICARRD rimasero solo le briciole. Provammo a portare avanti le nostre iniziative in America latina, dove pensavamo ci fossero delle condizioni politiche più favorevoli e dove un nuovo capo era stato nominato all’ufficio regionale. Ma nemmeno da quella regione vennero segnali di cooperazione. Va ricordato in particolare il totale disinteresse dimostrato da Evo Morales sia per il tema che per la conferenza, come se la Bolivia non avesse avuto (e non avesse ancora adesso) dei tremendi problemi legati alla sua struttura fondiaria. Erano segnali chiari che anche i governi cosiddetti “progressisti”, in realtà avevano poco interesse ad occuparsi della loro base contadina, continuando a ripetere gli stessi errori segnalati da Dumont fin dal 1962 (vedi anche https://paologroppo.blogspot.it/search?q=Dumont). 

La politica dello struzzo portata avanti dai paesi del nord non ottenne però i risultati sperati. Se è vero, come è vero, che fu bloccata la spinta interna FAO, rimase sul tappeto il numero crescente di conflitti che si registravano in giro per il mondo, nonché le pressioni che altri attori continuavano ad esercitare al loro livello, includendo anche molte organizzazioni della società civile all’interno dei paesi del nord.

Il risultato di tutto questo fu l’idea di riaprire la discussione sul tema terra, a partire dal versante che interessava il nord: gli affari. Fu così che in modo molto silenzioso e quasi sottobanco, vennero preparate delle linee guida per degli investimenti responsabili in agricoltura (le cosiddette PRAI, preparate assieme alla Banca Mondiale, l’IFAD e l’UNCTAD e gestite dalla Divisione del Commercio (!!!) senza che il gruppo che si occupava della Terra e quello che si occupava di partenariato con la società civile ne fossero a conoscenza: http://www.g20dwg.org/documents/pdf/view/148/). 

Una volta ancora si confermò l’incomprensione totale da parte del mondo degli affari del nord rispetto alle dinamiche sociali del sud. Non appena queste linee guida furono conosciute, il boato contro di loro emerse da moltissime parti, del sud come del nord. Quel documento, già in circolazione, di fatto venne cestinato in maniera diplomatica e si decise allora di riprendere la discussione in modo più aperto e inclusivo. Chi comandava però erano sempre gli stessi, cioè il nord anglosassone nelle sue varie espressioni (Banca Mondiale, cooperazione inglese e americana, Unione Europea…): il perimetro iniziale venne deciso a tavolino e senza molte discussioni: i funzionari FAO che avevano avuto un ruolo importante nella ICARRD dovevano starne fuori, e i temi in discussione non dovevano accennare alla riforma agraria. 

Dal cappello magico venne fuori così il nuovo leitmotiv emerso a Washington pochi anni prima, e cioè la “buona governanza”. Suggerisco sempre di rileggere l’articolo di Jomo K. Sundaram e M. Clark (The Good Governance Trap- 
https://www.project-syndicate.org/commentary/governance-reform-development-agenda-by-jomo-kwame-sundaram-and-michael-t--clark-2015-06?barrier=accessreg) per farsi un’idea di cosa ci fosse dietro. In due parole: una volta ancora il nord (anglosassone) decideva cosa fosse buono per il sud del mondo, mettendo nero su bianco i principi di quella che loro consideravano l’unica via per migliorare la governance di un paese. 

Da lì partirono tre anni di negoziazione che portarono al parto delle Direttive Volontarie approvate a maggio del 2012 con il plauso, incredibile ai miei occhi, della Via Campesina, presente sul palco a tessere le lodi. Storicamente il voltafaccia della Via Campesina resta difficilmente comprensibile, dato che le premesse di cui sopra erano chiare a tutti fin dal primo giorno. Le direttive nascevano con una chiara impronta ideologica decisa nel nord; erano chiaramente orientate solo ed esclusivamente verso i paesi del sud, in modo da sottolineare che il problema della cattiva governanza non riguardava “noi”, ma “loro”. In più, per compensare i passaggi “progressisti” all’interno de testo, le direttive nascevano come volontarie e, cosa ancora peggiore, nascevano senza padre e madre. 

Alcuni colleghi e amici che hanno partecipato alle negoziazioni, trovano le mie posizioni molto (troppo?) critiche. Il punto centrale è la comprensione sistemica del processo storico che ha portato a quel documento, nonché le azioni concrete da parte dei maggiori interessati. Il fatto che il documento inserisca anche vari aspetti positivi non lo critico, anzi. Credo che le esperienze che avevamo portato avanti da parecchi anni in vari paesi del sud, alla fine abbiano finito per arrivare nella testa di alcuni dei colleghi estensori del testo, cosa per cui si ritrovano tracce dei principi che difendo da vari decenni.

I problemi sono di altra natura. Il primo riguarda la questione dei rapporti di forza politici. Sulla scorta dell’esperienze di ICARRD, era evidente che a livello di delegazioni governative ufficiali presso la FAO comandavano quelli restii a ogni cambiamento reale nella struttura fondiaria. Di conseguenza, portare questo tema, diluito all’infinito, in una discussione politica di questo livello, era come andare nella gabbia dei leoni armati solo di un battiscopa. Il fatto che il documento sia uscito non troppo male, non toglie il fatto che si sia trattato di un passo indietro rispetto a dove eravamo giunti con ICARRD. Il punto dirimente riguarda la questione dei diritti storici, ancestrali delle comunità locali (e popoli indigeni,  nomadi e pescatori) riguardo le risorse naturali. Quei diritti, ancorché informali, erano e sono scritti nella legge consuetudinaria; funzionano all’interno di istituzioni locali con meccanismi chiari ed evolutivi per quanto riguarda la risoluzione di conflitti, basandosi nella maggior parte dei casi sul principio del dialogo e della negoziazione. Per noi era una questione fondamentale, dirimente, che questi diritti fossero (e siano) riconosciuti a priori, (il che non significa necessariamente la loro formalizzazione sotto forma di titoli). Il principio di base, che in ogni società esistente al mondo, era che prima di entrare nelle terre (o acque, o foreste) di una comunità, si dovesse chiedere permesso, parlarne con le autorità e discutere il perché e il come. Bussare alla porta resta il segnale di riconoscimento che lì dentro esiste uno spazio dove altri hanno dei diritti, che io riconosco nel momento di chiedere “permesso?” prima di entrare. Questo abbiamo portato avanti nei progetti e questo sto tentando di fare anche attraverso i miei ex consulenti oggigiorno responsabili di progetti di questa natura. 

Le direttive non hanno mai raggiunto questo livello di consapevolezza e questo per le ovvie resistenze di una maggioranza di paesi (ed interessi economici) del nord e del sud che volevano avere le mani abbastanza libere per prendersi le risorse del sud.

L’altro grosso problema, come segnalavo prima, è stato il fatto che le Direttive Volontarie sono nate senza padre né madre. La FAO, per bocca ancora una volta del suo caposervizio, ha ripetuto mille volte che quello non era un documento FAO, per cui non spettava a lei fare il lobbying necessario nei paesi. Tecnicamente corretta, la frase nasconde però una verità politica: la FAO rappresentata da questa frase era quella di una FAO che non voleva impegnarsi sul terreno a favore di azioni concrete dove i problemi reali esistono. D’altronde questa era stata la via maestra da quando era stato nominato capo servizio una decina di anni prima: trasformare l’unità tecnica della FAO in una agenzia di servizi per la Banca Mondiale, evitare qualsiasi impegno diretto laddove ci fossero problemi di conflittualità legata all’accesso e al riconoscimento dei diritti fondiari, e limitare le azioni a un generica informazione su buone pratiche, lasciando poi i paesi (e i gruppi più marginalizzati) a giocarsela da soli. Era questa la posizione ideale per la Banca Mondiale: la FAO così si dimostrava un alleato che metteva la propria reputazione a favore di frasi banali, appoggiava tecnicamente i programmi decisi dalla banca, ma senza mai criticarli e che evitava di attivarsi realmente sul tema della democratizzazione dei diritti alla terra.

Non stupisce che i nostri rapporti, pur nella formalità dei riti di ufficio, siano stati molto tesi. Da un lato mi estromise dalla direzione della rivista “Riforma Agraria” che avevo diretto per 17 anni; dall’altro mi chiese di interrompere il lavoro che stavo portando avanti nei paesi lusofoni, alcuni dei quali in pieno conflitto a causa delle risorse naturali e finalmente mi estromise completamente dalle discussioni e successivamente dalla messa in opera, delle attività legate alle Direttive Volontarie. Non ce l’ho con lui, che era stato nominato alla FAO in parallelo al mega assegno che la cooperazione inglese dette alla FAO per un programma sui “mezzi di vita sostenibili”, e il cui mandato, secondo me, sempre fu quello di impedire qualsiasi azione realmente progressista nel tema terra nei paesi che ne avevano bisogno (non solo nel sud del mondo). Ha fatto quello che gli era stato chiesto di fare e le VGGT sono state il suo capolavoro: un documento dove in teoria ci stanno tante cose ma che nessuno osa portare avanti politicamente.

Dal giorno della loro approvazione, il problema, come al solito, fu quello dei soldi e quello, più critico ancora, di cosa fare. Escludendo a priori che la FAO promuovesse attivamente la costruzione di spazi politici per far si che i diritti contadini fossero inseriti nelle legislazioni e nelle politiche nazionali, le azioni che avevano in mente i responsabili (anglosassoni) erano ovvie: una generica diffusione del documento, con traduzione in tante lingue, poi una serie di seminari prima regionali, poi nazionali per presentare articolo per articolo il documento. Tutto questo, come ebbi modo di verificare durante uno di questi seminari in Guyana, escludeva il tema politico per eccellenza: per quale ragione un governo che non riconosce i diritti delle comunità locali, dei popoli indigeni, pescatori artigianali, dovrebbe, di punto in bianco e senza nessuna pressione internazionale, modificare il suo comportamento sulla base dei principi enunciati nelle VGGT? Questa domanda non ha mai trovato risposta da parte del gruppo VGGT, e questo fino al momento di scrivere queste pagine. E quale ruolo la FAO intendesse realizzare, al di là di questa generica campagna informativa? Intendeva svolgere un ruolo attivo per facilitare la risoluzione di conflitti, per promuovere politiche diverse? Ruolo attivo significa andare verso i paesi, verso i ministri, rompere le scatole, diplomaticamente parlando…

Anche la Via Campesina finì per rendersi conto di esser stati raggirati. Tutti contenti di averli nella foto del 12 maggio 2012, dopodiché ognuno per la sua strada e per LVC questo ha significato rendersi conto che nessuna iniziativa concreta sia stata portata avanti, dalla FAO o in collaborazione con loro, per spingere a modifiche reali nei rapporti di forza attorno alle risorse naturali.

Il fatto che sei anni dopo, non ci sia nemmeno un accordo sugli indicatori per monitorarlo, conferma come tutta l’operazione sia stata montata per ragioni essenzialmente politiche: evitare di entrare sul serio, strutturalmente, sul tema dell’accesso alle risorse naturali (e questo in un periodo di piena espansione del land grabbing), menare il torrone in lungo e in largo finché anche questa febbre si esaurisse. Oramai i fondi per questo lavoro si stanno esaurendo e quindi i donatori potranno gentilmente proporre di passare ad altri temi, tanto oramai nemmeno i movimenti contadini sembrano spingere per una vera riforma agraria. 

La risposta quindi alla domanda iniziale, se le VGGT abbiano contribuito a cambiare vite, resta assolutamente negativa. Gli unici sforzi propositivi, da veri rompiscatole, che in questi anni sono stati portati avanti in nome della FAO, sono quelli di cui ci siamo occupati io e il mio gruppo di ottimi consulenti (e attuali funzionari), sia nel mare magnum della governanza in senso lato, sia e soprattutto, all’interno dell’agenda dei conflitti sulle risorse naturali, tema che sta finalmente emergendo come una vera e propria area di lavoro prioritaria per l’organizzazione.

Gli insegnamenti che possiamo tirare da queste esperienze sono abbastanza semplici: da un lato la necessaria considerazione da dare ai rapporti di forza esistenti, in modo da capire con chi sia possibile allearsi e attorno a quale agenda. Secondo, il necessario pro-attivismo che una agenzia tecnica come la FAO dovrebbe assumere come ragion d’essere. Un pro-attivismo che non significa diventare movimento sociale o ONG, ma semplicemente sfruttare al meglio i margini di manovra esistenti tanto per quanto riguarda il lavoro di assistenza tecnica (e politica, aggiungo io) con i governi, quanto per la possibilità di realizzare, in collaborazione con altri attori, delle azioni di terreno concrete che possano migliorare la vita di chi soffre in campagna.

Quello che si fa fatica a capire, anche ai piani alti della mia oramai ex-organizzazione, è che al fare poco o nulla su questi temi, rintanandoci nelle sicurezze di far pubblicazioni e dei generici workshops, senza una affermazione chiara e concreta di quei valori che diciamo a parole essere i nostri, si va perdendo poco a poco credibilità e fiducia. Questo lo può vedere bene chi, come me, ha passato quasi trenta anni lavorando in tante regioni del mondo, con questa organizzazione. Offrire i nostri servizi alla Banca Mondiale, senza poter partecipare alle scelte politiche (e ideologiche) che stanno dietro a quelle operazioni, non fa altro che dar l’impressione di esser diventati i prestatori d’opera della Banca, incapaci di una visione nostra che parta dal principio che differenzia la FAO dagli organismi finanziari: da noi ogni paese vale un voto, uno vale uno, mentre là dentro chi paga di più decide. Al metterci al loro servizio di fatto si finisce per dare una cauzione tecnica e morale a programmi che, come hanno dimostrato una lettura di studi e casi concreti, non partono mai dal principio di riconoscere i diritti locali e dalla necessità di promuovere una democratizzazione dell’accesso alle risorse naturali, ma sempre dalla primazia del dio mercato, dal favorire gli “investitori” in nome di una concezione dello “sviluppo” degna dell’800.

Che la saga delle VGGT finisca, e presto, non sarà un male, anzi. Il punto da cui ripartire resterà la ricerca di un terreno comune di intesa, come volevamo proporre per il post-ICARRD, dove venissero messe sul tappeto le questioni legate alle asimmetrie: di potere, di genere, di informazione e di educazione. Solo da una concezione più democratica dei rapporti di forza politici sarà possibile far emergere un futuro dove anche l’unità tecnica della FAO che lavora sul tema terra ritrovi un senso storico al suo lavoro. Il rischio altrimenti è di ritornare nello stesso cono d’ombra dove era finita quando iniziai a lavorare con quei colleghi vari decenni fa.

Questo impone una riflessione interna seria, che leghi una comprensione più globale e sistemica dei processi in corso, con maggiori informazioni attualizzate, a una strategia di azione pensata assieme alle altre unità tecniche, con le ovvie diversità paese per paese, partendo dallo sviluppo di programmi paese (i famosi Country Progam Framework) che osino mettere sul tappeto anche le questioni delicate, il tutto con lo scopo di ricreare una credibilità popolare, politica e finanziaria attorno all’organizzazione. 


Verrebbe da chiudere ricordando come, assieme a un problema generale di credibilità che l’organizzazione sta perdendo, ne cominci ad esistere uno specifico di credibilità professionale. La questione riguarda le basi stesse della credibilità: per me e per i tanti giovani con cui ho lavorato e che hanno contribuito a rileggere e correggere queste pagine, le due caratteristiche fondamentali sono la competenza e la conoscenza. Elementi che tendono a sparire in questi anni recenti, dentro a un’Organizzazione sfibrata dalle faide interne che distraggono dal fondamentale mandato di cui dovrebbe farsi carico a servizio dei gruppi più marginalizzati dei paesi membri. 

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