Problemi, tensioni e conflitti attorno alle risorse naturali sono sempre esistiti. L’ingordigia umana per accaparrarsi le migliori riserve di suolo, sottosuolo e, oramai, soprassuolo non ha limiti temporali. Quello che si possiamo dire è che il numero, la complessità e la natura dei conflitti è andata aumentando parecchio nell’ultimo decennio.
Leggendo in dettaglio i rapporti pubblicati da Ejolt (Environmental Justice Organisations, Liabilities and Trade), in collaborazione con l’UNEP ed altri, è possibile farsi un’idea delle tante e accresciute modalità di accaparramento che stanno provocando conflitti prolungati e armati in tutto il mondo.
La mappa qui sotto serve solo per farsi un’idea visiva della situazione in questi anni recenti.
Le conseguenze di questi conflitti sono legate allo spostamento massiccio di popolazioni, alle violenze perpetrate sulle popolazioni locali e sulle donne in particolare e all’abbandono di aree importante che potrebbero essere dedite alla produzione di cibo e alimenti per uomini e animali.
Non occuparsi seriamente del tema dei conflitti diventa quindi una fuga dalla realtà, e quindi accettare come un dato di fatto la crescente pauperizzazione della nostra terra e l’impoverimento di pani interi di popolazioni, l’aumento delle violenze sulle donne e la ovvia impossibilità di mantenere fede ai tanto proclamati obbiettivi del millennio.
Ovviamente la responsabilità principale ricade sui governi, che spesso però sono parte in causa nei conflitti. La loro fragilità, la loro pochezza istituzionale e il loro essere facile preda di conquistatori molto più potenti, originari del mondo privato e pubblico, fa sì che queste barriere istituzionali siano oramai quasi inutili di fronte alla massa del problema da affrontare.
Senza parlare poi delle manipolazioni politiche messe in atto per far credere all’impegno che governi “democratici” starebbero facendo in favore della soluzione di conflitti e a favore della pace. Un caso emblematico, e recente, riguarda la Colombia: il governo del Presidente Santos si è impegnato a fare un accordo di pace con le FARC vendendo questo successo come la fine del conflitto armato che insanguina la Colombia dal 7 febbraio 1948, giorno del sanguinoso “Bogotazo”. In realtà, come vari esperti stanno scrivendo, una cosa è la fine del conflitto con una delle guerriglie, FARC in questo caso, altra cosa, ben diversa e molto più complicata, porre fine al conflitto che insanguina il paese per ragioni profondamente economiche. Il controllo delle zone cicalerei resta centrale per quell’economia parallela che comanda in Colombia, Messico e tanti altri paesi centroamericani. Tolte le FARC, altri gruppi di narcotrafficanti hanno ripreso in mano il business, ammazzando i difensori dei diritti umani, leader indigeni, contadini e afro-discendenti (http://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2017/10/20/news/colombia_crescono_le_violenze_e_la_pace_torna_ad_essere_in_bilico-178805183/)
Quindi, sperare che siano i governi, da soli, a risolvere questi problemi non ha nessun senso.
Tante ONG, piccole, medie e grandi cercano di darsi da fare e in generale i loro sforzi sono encomiabili anche se chiaramente insufficienti. Ma almeno loro ci provano. Le Nazioni Unite sembrano spesso assenti, a parte la co-produzione di mappature di quanto sta avvenendo e la pubblicazione di manuali (soprattutto da parte dell’UNEP) sui conflitti.
L’organizzazione per cui ho lavorato per quasi trent’anni, FAO, sembra invece esitare nel mettersi a lavorare su questi temi in modo serio e programmatico. Solo oggi, dopo decenni che vari colleghi e colleghe, aiutate o meno dai loro capi, già erano impegnati nel portare avanti sforzi metodologici e pratici per cercare di ritrovare un terreno comune su cui ricostruire un patto sociale che si sta sfilacciando in molte parti, solo oggi dicevo è stato finalmente pubblicato il quadro di riferimento corporativo che dovrà guidare la FAO nel contesto dell’Agenda 2030 (Corporate Framework to support sustainable peace in the context of Agenda 2030 -
Per quanto mi riguarda, mi sono avvicinato a questi temi a metà degli anni 90, da un lato grazie al lavoro che stavamo strutturando nel Mozambico del dopoguerra, e dall’altro per via del genocidio ruandese. Due esperienze istituzionalmente diverse, con esiti molto diversi. Il cammino intrapreso nel Mozambico era sottobraccio, dato lo scarso interesse che in FAO si mostrava, all’epoca, per i paesi di lingua portoghese (dovuta probabilmente al semplice fatto che, non essendo lingua ufficiale, erano pochissimi i colleghi che la parlavano, per cui era più semplice evitare di andarci). Questo lavoro sottobraccio permise di arrivare ad appoggiare gli sforzi del governo per una nuova politica fondiaria (1995) e poi per rifare la legge sulla terra (1997) che resta ancora oggi una delle più avanzate di tutta l’Africa. Lo scarso interesse istituzionale interno fece sì che ai piani alti nessuno ci dicesse nulla, di andare avanti o di fermarci, e così ci lasciarono lavorare. Lo stesso accadde anni dopo in Angola, per le stesse ragioni. Nel caso del Ruanda il mondo intero decise di muoversi, dopo che il genocidio era stato realizzato. Quando i colleghi della divisione delle Emergenze ci proposero di cominciare a riflettere sulle cause profonde (root causes) del conflitto, che erano chiaramente legate all’accesso alle risorse naturali, terra, foreste e acqua, contese dai due gruppi Hutu e Tutsi, per la prima volta capii il concetto di “muro di gomma” che venne applicato dai nostri capi servizio. Il risultato fu che non riuscimmo a cominciare nulla, perché la situazione era complicata, perché era meglio attendere, perché, perché, perché.
Sulla scorta dell’esperienza mozambicana, sul finire degli anni 90 iniziammo anche a lavorare in Angola: la guerra civile era ancora in corso, la questione del controllo della terra ragià chiara anche ai paesi donatori (ricordo il primo incontro che ebbi col responsabile del portfolio di sviluppo rurale dell’Unione Europea che mi disse esser pronto a mettere soldi veri, e parecchi, per un programma che toccasse il tema terra, ma che dubitava fortemente che il Partito al governo avrebbe accettato di aprire quella discussione. Contando sul fatto che a Roma nessuno capiva bene cosa facevamo, riuscimmo, grazie a un piccolo finanziamento della cooperazione italiana, a portare a termine dei piccoli interventi di risoluzione di conflitti locali e ad aprire pubblicamente, col Ministro dell’Agricoltura a presiedere, una prima riunione di lavoro fra il governo, paesi donatori ed invitati vari (ONG, Nazioni Unite…). Quando a Roma, i cui servizio si resero conto dove stavamo mettendo le mani, ancora una volta, con la tattica del muro di gomma (interpretato all’inglese), cercarono di bloccarci. Stavolta però furono i colleghi delle Emergenze a ricordare quale fosse il mandato della FAO e quanto il nostro lavoro fosse apprezzato.
Storie del genere in questi decenni ne abbiamo avute a decine. Ultima quella ancora in corso nel Sudan del Sud (ma per quanto tempo ancora?) dove i nostri sforzi per mostrare un cammino di dialogo e negoziazione, a partire da interventi “tecnici”, sembra stia rompendo le scatole qualche collega.
Al giorno d’oggi i conflitti li misuriamo non più in decine o centinaia, ma a migliaia se non decine di migliaia. Noi Europei, anche quando ci tappiamo gli occhi, siamo costretti a rendercene conto data la prossimità geografica col continente più esposto a questi problemi.
La FAO venne creata nel 1945 per occuparsi della fame nel mondo (agricoltura e alimentazione). Il suo ruolo attivo nella promozione della pace e della libertà dalle necessità venne chiaramente esplicitato fin dalla prima Conferenza: “...the Food and Agriculture Organization is born out of the need for peace as well as the need for freedom from want. The two are interdependent. Progress towards freedom from want is essential to lasting peace.”
Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni ha fatto della prevenzione dei conflitti una delle grandi priorità del sistema della Nazioni Unite.
Il lavoro svolto dalla FAO sul terreno la rende, agli occhi di gran parte degli attori interessati, un partner centrale in tutti gli aspetti legati ai conflitti, che ha molti elementi comuni con le crisi alimentari e/o ambientali che periodicamente si verificano sul pianeta. Collaborazioni esistono su molti aspetti di vigilanza climatica, per allertare in tempo quando si stiano preparando fenomeni preoccupanti come siccità o altro, ma se togliamo dal tavolo il lavoro “emergenziale” e cerchiamo di vedere dove sia la “policy” della FAO sul tema conflitti e costruzione di una pace durevole, troviamo poca sostanza, se non delle direttive volontarie che non responsabilizzano assolutamente i paesi membri.
Sembra proprio che ai piani alti, gestionali, risulti difficile capire l’importanza strategica e l’urgenza di lavorare sul tema dei conflitti, mettendo a disposizione risorse umane prima che finanziarie. Il fatto stesso che il management abbia iniziato a muoversi a livello corporativo solamente dopo che l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nella sessione di aprile 2016, lanciarono una ambiziosa agenda sul tema della pace durevole, può rendere un’idea chiara dello spessore del muro di gomma interno.
Difficile capire le ragioni di questa velocità da lumaca. Pur tuttavia dovrebbe essere evidente a tutti che senza una azione coordinata, forte e coerente sulle radici dei conflitti (e quindi le risorse naturali, terra, acqua, foreste, aria, risorse genetiche e sabbia) nessuno degli obbiettivi che periodicamente le nazioni unite si danno potrà essere raggiunto; secondo, la disorganizzazione attuale del sistema delle nazioni unite lascia campo aperto a quelle agenzie che abbiano qualcosa da dire (e dell’esperienza provata) per guidare questi lavori che dovranno, per loro natura, essere integrati e puriannuali: se la FAO, che ne avrebbe tutte le caratteristiche per farlo non si sbrigherà, qualcun altro lo farà (PAM, PNUD, UNEP…); terzo, i temi dei conflitti e delle migrazioni forzate sono sempre più legati, di conseguenza la massa critica di risorse finanziarie nei prossimi anni andrà in quella direzione: ancora una volta, o la FAO si da una mossa, o altri occuperanno quella nicchia e prenderanno quelle risorse. Il documento pubblicato oggi è sicuramente un passo in avanti, e posso capire la gioia di colleghi che si sono impegnati nella scrittura e che non vedevano passi avanti da oltre un anno. Sono contento con loro, ma nello stesso tempo sono preoccupato della lentezza con cui tutto questo accade. Avendo svolto la mia vita professionale dentro questa organizzazione, ed avendo provato per anni a far sì che si cominciasse a discuterne pubblicamente, che le nostre esperienze sul terreno fossero riconosciute internamente dal management e non solo dai colleghi con cui abbiamo lavorato, posso dire di essere stato testimone di questo muro di gomma interno che è andato rafforzandosi anno dopo anno. Capi servizio che hanno fatto di tutto per rallentare il nostro lavoro, capi dipartimento che mai hanno mostrato interesse per questi temi … ed essendo poi loro gli assistenti più vicini al direttore generale, si capisce come ai piani alti questi temi non arrivavano mai.
Se dovessi giudicare dalla mia esperienza personale, malgrado il buon segnale odierno, resto ancora parecchio pessimista. Da un lato non posso non ricordare che, fino al momento di andarmene in pensione anticipata, per le note ragioni, ero l’unico funzionario a lavorare sul tema terra e conflitti, seguendo iniziative in corso o in via di formulazione in Africa e Medio Oriente. Come premio venni mandato nell’ufficio di Bangkok. Messaggio ricevuto. Altri colleghi lavoravano e lavorano su aspetti tecnici molto importanti legati ai conflitti, tipo la salute degli animali, la messa a disposizione di sementi e piccoli attrezzi per le popolazioni colpite dai conflitti, tutte cose importanti, ma la questione centrale, che piaccia o meno, resta legata alla competizione, feroce, per l’accesso e il controllo delle risorse naturali: terra, acqua, sabbia, foresta e risorse genetiche, per non dimenticare l’aria.
Altro aspetto che ho potuto toccare con mano in questi anni, al di là della solita retorica della collaborazione tra le varie agenzie UN, lavorando come una sola agenzia (Delivering as One), la realtà è esattamente l’opposto: ogni agenzia va per conto suo, competendo con le altre e cercando di farsi più bella agli occhi dei donatori. Vien quasi da pensare che ci sia più attenzione per i donatori e quello che vogliono, (e dove vogliono) che per i problemi veri della gente cacciata via dalle loro terre. Molto spesso quando abbiamo cercato di proporre strade collaborative per entrare a parlare di questi temi, partendo da altri interventi in corso, in modo da far capire la continuità programmatica, spesso dicevo le resistenze maggiori le abbiamo avute internamente. Ognuno per sé e i donatori per tutti (o quasi), questo sembra essere la triste realtà attuale.Poi è chiaro che nelle dichiarazioni ufficiali e nelle foto si sorriderà, si dirà e scriverà che siamo tutti colleghi e che il nostro compito è unico e uguale per tutti, ma non è così.
Detto questo, una speranza resta sempre: da un lato il fatto che questo documento sia stato approvato a livello corporativo significa che i paesi membri hanno dato il loro assenso. A me fa ancora più piacere quando leggo i riferimenti agli sforzi che abbiamo fatto in questi anni, insistendo sull’importanza del tema del dialogo, dell’empatia verso gli altri, più che di questioni tecniche.
Dall’altro lato sembra quasi sicuro che nel prossimo quadriennio ci saranno due funzionari in più ad occuparsi di costruzione della pace (un proxy abbastanza evidente del tema terre e conflitti).
Dopodiché resta da ricordare che fra poco più di un anno si cambierà gestione, per cui nulla vieta sperare che il management futuro mostri maggiore sensibilità su questi temi. Certo è che cambiare la cultura interna, spingere per una maggiore collaborazione e un ruolo più attivo sul terreno necessiterà anche un cambio radicale di molte di quelle figure di rappresentanti che la FAO ha nei paesi i quali si sono dimostrati essere i primi freni qualsiasi lavoro serio su questo tema. Pensare che sia solo un problema di leadership non è corretto. Chi sta sopra, in una organizzazione piramidale come la FAO, ha ovviamente responsabilità maggiori per questi ritardi, ma il punto critico risiede anche ai livelli di capi dipartimento, direttori e capi servizio nonché di chi rappresenta l’organizzazione nei paesi. Se non cambieranno le cose da sotto in su, non si otterranno risultati, dato che la cultura che ancora domina è sempre quella della competizione con gli altri, agenzie UN ma anche grosse ONG. Forse non è un caso che quando si fa riferimento a processi di pace dove l’intervento esterno ha permesso di firmare un accordo di pace e far smettere (per un tempo almeno) gli scontri diretti armati, penso al Mozambico e alla Colombia, dietro non si trovino le mani delle Nazioni Unite, ma quelle del Vaticano.
Meditate gente, meditate.
Nessun commento:
Posta un commento