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lunedì 4 gennaio 2010

Terra, terra!!

Terra, terra!!
(continuano le riflessioni autunnali)

Scrivo per pensare. Mi aiuta a farlo, per cui, avendo bisogno di fare un po’ il punto della situazione sulle eterne questioni fondiarie, la cosa più semplice è di buttar giù le idee man mano che vengono. Poi le ordinerò e le pubblicherò, così ne potremo discutere con chi ne avrà voglia.

Dopo oltre venticinque anni che mi interesso a questi temi, osservando da vicino quando possibile, oppure riflettendo su cose scritte da altri, continuo a trovare dentro di me uno scetticismo profondo (e forse crescente) sulla volontà dell’essere umano di voler provare a cambiare questo mondo per renderlo più giusto.

All’inizio ho studiato da geometra, e forse è questo che mi fa ritenere che le case si costruiscono partendo da solide fondamenta, principio che dovrebbe essere patrimonio comune. Partendo da questo assunto, penso che se si volesse sul serio migliorare la situazione agricola, forestale e delle popolazioni migranti nel mondo, cioè di tutti quei gruppi sociali e produttivi che hanno bisogno di un substrato fisico su cui produrre, sarebbe necessario garantire maggior sicurezza per quanto riguarda il loro rapporto con la terra .

Il rapporto fra fame e questione fondiaria è stato analizzato in dettaglio fin dagli anni trenta dal medico brasiliano Josué de Castro, che poi lo ha presentato al mondo col suo famoso libro “La Geografia della Fame”, uscito nel 1946. Da allora molto si è detto (e poco si è fatto) su questi temi. Si sono fatte delle riforme agrarie, con risultati non proprio soddisfacenti, ma ancor più si è fatto per minimizzare la relazione tra sicurezza fondiaria e sicurezza alimentare/sviluppo. Forse perché toccare la questione fondiaria voleva dire andar a toccare i centri nevralgici del potere, per cui era più facile trovare un consenso sul “parlar d’altro” piuttosto che di potere e terra.

Malgrado questa congiunzione di interessi, tra nord e sud, tra est e ovest, qualcosa si era mosso (o almeno si era cercato di muovere). Dapprima nel 1966, con la riunione internazionale sulle terre organizzata dalla FAO, poi con la conferenza mondiale del 1979 che per la prima volta vedeva assieme i paesi dei due blocchi, gran parte dei paesi del sud e, per la prima volta, anche le organizzazioni non governative.

Si negoziò, si arrivò ad approvare un Piano d’Azione ma ben poco si riuscì a mettere in pratica, anche perché dall’anno successivo, con l’arrivo al potere di Reagan e della Thatcher, iniziò un decennio buio (la década perdida) per quanto riguarda la tematica “sviluppo” .

Pian piano quindi il disegno di svincolare la questione crescente della Fame dalla questione delle terre riuscì nel suo intento, e di terre e riforme agrarie non si parlò praticamente più.

Anzi, quando si tornò a parlarne, poco dopo la caduta del Muro e la disgregazione dell’Unione Sovietica, fu per metterci una pietra tombale sopra.
Venne fatta la proposta, da parte di uno dei paesi membri della FAO, di eliminare l’unità tecnica che si occupava (piuttosto blandamente, a dire il vero) del tema riforma agraria.

Quindi non solo il tema non interessava, ma si considerò che fosse giunto il momento di toglierlo proprio dall’agenda internazionale.

Gli anni 90 però hanno segnato il gran ritorno del tema “Terra” nella scena mondiale. Il lavoro svolto localmente dalle organizzazioni contadine in Brasile e nelle Filippine portò, contemporaneamente, a inserire la questione della riforma agraria nell’agenda dei nuovi governi democratici (1985) che chiudevano l’era delle dittature militari in quei paesi. L’importanza che questi movimenti, primo fra tutti il “Movimento dei lavoratori senza terra” del Brasile (MST), avrebbero avuto nella dinamica internazionale era poco stimata all’epoca, ma di fatto fu un crescendo molto rapido, tanto all’interno del paese così come dell’America latina e poi a livello mondiale.

Ma forse questo non sarebbe stato sufficiente a rimettere la questione fondiaria al centro dell’attenzione, se non fosse che l’insieme dei paesi dell’est europeo richiesero immediatamente appoggio tecnico proprio sulla “questione terra”. L’insicurezza fondiaria creata dal sistema sovietico era molto grande e trasversale a paesi e gruppi sociali ed economici; ciò provocò una valanga di richieste alle agenzie internazionali/cooperazioni tecniche bilaterali per rimettere in ordine i sistemi di amministrazione (catasto) e di gestione delle risorse naturali in tutti i paesi.

Questo produsse un rapido cambio di orientamento nei paesi dominanti del nord: non potendo eliminare il tema “terra”, si proposero di “governarlo” a partire dai sani principi di “mercato”.

L’idea guida era (ed ancora è) che gli Stati non fossero capaci di riequilibrare le strutture fondiarie e che solo il mercato potesse farlo. Da un lato si riprendeva l’idea iniziale (mettere delle buone fondamenta), dall’altro la si declinava in un modo che non poteva risolvere i problemi di fondo.

I punti di partenza erano tre: a) affidarsi al mercato come meccanismo principale per ripartire le risorse; b) migliorare il quadro legislativo e c) rafforzare le istituzioni della amministrazione fondiaria (catasto e conservatorie dei registri immobiliari).

L’errore di fondo era, ancora una volta, di voler copiare e incollare al sud meccanismi tipici dei paesi del nord che si erano sviluppati nell’arco di decenni/secoli come parte delle dinamiche sociali, politiche ed economiche di questi paesi. Cioè risposte elaborate al nord dalle società e trasformate poi in istituzioni. Erano quindi risposte che avevano, alla base, una legittimazione sociale prodotta ed elaborata nel tempo.

Lavorare col copia-incolla significava o considerare i paesi del sud come incapaci di elaborare soluzioni proprie o, peggio, non aver capito l’importanza della legittimità sociale nelle risposte ai problemi propri di una società.

Se facciamo un primo bilancio, a spanne, dello stato del mondo per quanto riguarda questo tema (tradotto in parole povere: negli ultimi vent’anni sono diminuiti o aumentati i conflitti legati alle risorse naturali?), credo siano pochi coloro che oserebbero dire che il mondo sia più calmo oggi.

Addirittura, quello che prima sembrava essere un problema del sud del mondo, pian piano è risalito anche in casa nostra, confermando una volta di più che non risolvendo i problemi all’origine, questi possono solo amplificarsi e raggiungere anche i tessuti “sani”.

I conflitti per le terre da parte dei nativi canadesi, il dovuto riconoscimento da parte del governo degli Stati Uniti dei soprusi commessi sugli indiani e sulle terre che sono state loro predate (vedi le news del 10 dicembre 2009 ); i problemi in Australia per i conflitti crescenti con gli Aborigeni, simili a quelli dei Maori in Nuova Zelanda, per non parlare di quelli che la Francia incontra nei suoi territori d’oltremare, sono alcuni facili esempi. Poi ricordiamoci che le guerre o le guerriglie in atto in Iraq, Israele/Palestina, Sudan, Sud delle Filippine, Afganistan, Colombia etc. sono tutte riconducibili a questioni territoriali (terra e acqua). Il controllo di queste risorse è fondamentale, non solo per il loro valore intrinseco ma anche per quanto sta sotto di loro. Non è un caso quindi la crescente conflittualità fra le compagnie minerarie e i popoli indigeni, in America latina come altrove .

Logica vorrebbe che, di fronte al fallimento dei rimedi proposti, si cercassero delle alternative. Ma da un lato si continua a non riconoscere il legame fra la fame, la povertà e la sicurezza fondiaria, dall’altro non si vuole assolutamente capire che le risposte vanno cercate, più che nel dominio tecnico, in quello della politica, e cioè nella legittimità sociale (oltre che nella formalizzazione legale).

Siamo oramai in presenza di forme di organizzazione sociale diverse da quelle di 30-50 anni fa. Il tentativo di delegittimazione compiuto nei confronti della forma-Stato da parte degli organismi finanziari internazionali nel corso degli anni ‘80, con uno strangolamento progressivo delle istituzioni nazionali, non ha portato alcun miglioramento nel funzionamento delle società. Da un certo punto di vista la società ha reagito, e il fiorire di associazioni locali, non governative, il progressivo organizzarsi dei movimenti sociali sono tutte risposte, ancora empiriche probabilmente, allo sfacelo provocato nei confronti di strutture statali deboli, corrotte e mal funzionanti. La ricetta proposta, meno stato – più mercato, non ha portato benefici ai poveri, e non ha ridotto né la corruzione né l’ingovernabilità cronica di questi paesi.

Al giorno d’oggi bisognerebbe ripartire da un ripensamento serio e profondo delle cause del problema fame e povertà, di cui la questione fondiaria resta ineludibile.

Da dove cominciare e quale strada intraprendere?

Se la diagnosi precedente è corretta, questo significa che si dovrebbe ripartire dalla politica e dalla questione della legittimità. Se siamo d’accordo che per debellare la fame e la povertà un passo importante (non l’unico, ma prioritario) sia quello di creare condizioni più sicure per i produttori agricoli, per i pastori ma anche per tutti quelli che vogliono investire nei territori per fini anche non agricoli, allora dobbiamo scendere a patti, discutere e negoziare accordi legittimi, che siano riconosciuti da questi attori ma dei quali essi devono sentirsi parte integrante. Di conseguenza dobbiamo aprire le porte a queste nuove forme di organizzazione sociale che, per comodità, mettiamo tutte nel calderone della società civile, il quale in realtà è molto più variegato e complesso.

Si dovrebbe partire dalla questione della sicurezza fondiaria, aumentando gli attori coinvolti nel processo. Sicurezza che non va identificata con proprietà privata. La sicurezza fondiaria viene da altre strade, ed è un concetto precedente a quello della proprietà privata.

La sicurezza non è quello che io rivendico come mia proprietà, ma è la risultante di quello che io rivendico con quello che viene riconosciuto e rispettato dai miei vicini o dalle istituzioni che stanno sopra di me. La sicurezza è quindi un rapporto sociale e non un bene assoluto. Non funziona nello schema bianco/nero, ma si colloca nella paletta dei grigi, da livelli alti a livelli molto bassi.

Non è un caso che, quando dobbiamo lavorare in paesi con grandi estensioni territoriali, la questione della proprietà privata non è la priorità delle comunità locali. La loro sicurezza dipende dalla rete di relazioni stabilite e mantenute con i loro vicini. Il rapporto è mutuamente utile per garantire a tutti la propria sicurezza. Sicurezza che, essendo un rapporto, può essere minacciata da attori che non riconoscono questo intreccio di relazioni e i limiti dei territori degli uni o degli altri. Lì troviamo conflitti, che in genere vengono risolti localmente; a volte essi possono degenerare in conflitti armati e violenti, che alla fine danno come risultanza nuovi equilibri, più o meno duraturi.

Se vogliamo intervenire per aumentare il grado di sicurezza, bisogna quindi prima capire chi siano gli attori in gioco, quali le reti di rapporti sociali fra di loro, il loro funzionamento interno, le dispute, i conflitti e i meccanismi di risoluzione, per poi cercare con loro una forma “partecipata” di riconoscimento territoriale. Ma ricordiamoci che la “sicurezza” non è sinonimo di documenti, titoli; si arriva a queste forme cartacee quando entra una asimmetria nel sistema e cioè entra in gioco un attore esterno (di solito più potente) che funziona con altre regole. In quel momento i meccanismi tradizionali perdono legittimità dato che l’esterno non riconosce a questi il diritto di dirimere la questione territoriale fra sé e la comunità locale.

L’esterno arriva con un pezzo di carta, su cui c’è scritto qualcosa, con un timbro da una istituzione che fa parte dello Stato, deus ex machina di livello superiore, per cui si creano le premesse di un futuro conflitto: da un lato la delegittimazione delle istituzioni “tradizionali” e dall’altro l’introduzione di un fattore nuovo (il pezzo di carta) sconosciuto alla maggior parte degli attori locali. Poco importa che il pezzo di carta sia effettivamente un titolo ufficiale, emesso da un governo, o che sia, come spesso abbiamo visto, solo un croquis, un disegno topografico fatto fare ad un cartografo del governo, che riporta i desiderata di chi paga. La questione diventa l’inserimento di nuove regole in un gioco senza averle discusse precedentemente, per cui si crea la sensazione di esser stati fregati.

Queste operazioni, che a volte sono fatte per semplice ingenuità, e a volte col chiaro proposito di “fregare” le comunità locali, raggiungono uno scopo comune: aumentare il grado di insicurezza del sistema perché nel breve e medio termine trasmettono l’idea che l’intervento esterno, si tratti di governi o di investitori (nazionali o stranieri) sia solo foriero di soprusi, di delegittimazione delle istituzioni locali e di perdita di potere economico e sociale da parte delle comunità locali.

Quindi si dovrebbe fare esattamente il contrario. Capire i meccanismi locali e cercare di elaborare delle proposte (quando e se necessarie) che tendano ad aumentare la legittimità e generino alla fine maggior fiducia nel sistema. Se alla fine della partita la comunità locale, l’investitore, il governo si trovano tutti a beneficiare di un clima migliore, di maggiori risorse e di minori problemi, in teoria questo dovrebbe essere ciò a cui tendiamo tutti quando ci occupiamo di sviluppo, non è vero?

Se qualcuno fosse interessato ad approfondire questo aspetto del dibattito, più tecnico, può leggere alcune pubblicazioni che abbiamo prodotto recentemente sulla scorta di programmi di terreno dove portiamo avanti, concretamente, questi interventi:
ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/010/k0786e/k0786e00.pdf
ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/009/ah249e/ah249e00.pdf
ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/012/ak546e/ak546e00.pdf
ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/012/ak547e/ak547e00.pdf

E allora perché non succede? Sarà che mancano soldi, risorse per portare avanti questi programmi? O manca qualcos’altro?

Il punto alla fine mi sembra proprio questo. Malgrado il tanto parlare delle poche risorse che vanno al sud (sia in cooperazione che in investimenti) credo proprio che non siano i soldi il centro del problema. E’ la volontà, tanto al nord come al sud del mondo; le politiche e le leggi per dare maggior sicurezza ai vari attori si possono fare con relativamente poche risorse, facilmente disponibili se ci fosse la volontà.

La volontà di chi? Ecco la domanda che mi porto dietro da anni. Capisco che chi ha fondato il proprio potere sulla usurpazione delle terre altrui, come era il caso di molti governanti fino ad un secolo fa, non sia particolarmente interessato ad aprire questa discussione. Capisco anche che chi continua ad accaparrarsi terra pubblica sfruttando istituzioni fragili e corruttibili, creando una vera e propria macchina per inventare dal nulla titoli antichi falsificati (il fenomeno conosciuto come grilagem in Brasile - cercate sul net per maggiori spiegazioni), farà di tutto perché non si parli di questi temi.

Capisco (ma ovviamente non condivido) anche che la logica cinica delle multinazionali e delle corporations che si buttano a pesce sul biofuel non sia di preoccuparsi troppo dei diritti delle popolazioni locali, così come le compagnie petrolifere o del gas saranno sempre maggiormente interessate al petrolio e al gas piuttosto che alle popolazioni che lì sopra ci vivono da secoli. Fa parte del gioco. Difendono delle posizioni, dominanti, un potere conquistato in un modo o nell’altro, della cui legittimità si può anche dubitare, ma che sappiamo essere così oggi e che così sarà anche domani.

Meno chiaro mi risulta capire perché tanti altri governi non abbiano mai voluto dire e fare nulla su questo punto. Non parlo di quei governi che di certo fanno, tipo lo Zimbabwe, ma così facendo producono danni ancor peggiori. Parlo invece di quei governi che si presentarono sulla scena mondiale con la legittimità conquistata grazie alle lotte di liberazione, governi che si dissero “progressisti”, “socialisti”, “popolari” etc. Di questi non si ricordano azioni esaltanti a favore dei diritti veri delle popolazioni locali, indigene. Di contadini e contadine.

Se poi passiamo la linea e veniamo qui al nord, il quadro è ancora meno esaltante. Pochi anni fa eravamo riusciti a portare governi del sud e del nord, movimenti sociali, ONG e tutto l’ambaradan a discutere delle questioni fondiarie a Porto Alegre (marzo 2006, www.icarrd.org): nemmeno lì ricordiamo azioni, frasi, promesse almeno da parte di quei governi progressisti del nord da cui in teoria tanto ci aspettiamo. Si sia trattato della Spagna di Zapatero, dell’Italia di Prodi o di altri casi, quello cui abbiamo assistito è stato un silenzio assordante.

Quindi da questo punto dobbiamo partire. La volontà per attaccare i problemi strutturali, quali quello fondiario, non c’é. La domanda diventa quindi: ma possiamo sognare di poter far cambiare idea a qualcuno, a qualcuno di quelli che hanno chiaramente potere? In una scala ancor più limitata, possiamo far qualcosa per sensibilizzare di più chi lavora su questi temi, dentro gli organismi internazionali ma anche dentro le molte organizzazioni della società civile?

Tessere la tela, aprire le porte

Il lavoro di sensibilizzazione e di far squadra deve vedere nella società civile e movimenti sociali un punto strategico. Senza di loro, nell’attuale configurazione di potere, non si va molto lontano. Certo, si può continuare ad evitare i problemi, ma il nostro punto di partenza é proprio il contrario, cosa fare per NON continuare più come si é sempre fatto. Per cui bisogna trovare modi, tempi e forme per portare avanti un dialogo costruttivo con la galassia della società civile, movimenti sociali, ONG etc. Lo sforzo é immenso, anche perché ritroviamo lì gli stessi difetti che ci hanno sempre fatto dire, a noi italiani, che basta mettere assieme due persone di sinistra per avere immediatamente tre partiti.

Si dialoga poco, bisogna ammetterlo, ognuno preso dal proprio particolare, dalla ricerca dei fondi per sopravvivere, dalla voglia di rafforzare i propri spazi di potere e, se posso dirlo, dalla difficoltà di cimentarsi con problemi che sembrano, a volte, troppo al di fuori della portata di queste organizzazioni. Quindi ci si specializza su temi utili, importanti, si seguono i fondi dei donanti, per cui si diventa come i delfini, a seguire le barche, mai a dirigerle. Fare rete, costruire una piattaforma minima comune é un’impresa di lunga gittata, ma se mai si inizia mai ci arriveremo.

Il punto d’incontro non va necessariamente cercato a livelli molto (troppo) alti; si può partire dalla questione dei diritti, siano questi delle comunità locali in Africa, delle popolazioni indigene, dei pastori, delle comunità afrodiscendenti in America latina, delle donne, per poter arrivare alla questione, più dirompente, dei senza terra. Partire da pochi principi di base: diritto di ogni paese a cercare le proprie soluzioni, per cui si chieda agli organismi finanziari e ai donanti maggior modestia nel decidere le politiche che i governi del sud devono adottare. Ma chiedere loro anche di riconoscere l’evidenza che i governi da soli non riescono più a governare i loro paesi; hanno bisogno di sponde nella società civile, nelle organizzazioni non governative e nelle organizzazioni contadine. Su questo aspetto, al momento di dare priorità agli interventi, gli organismi finanziari e gli stessi donanti potrebbero fare molto affinché la voce di questi soggetti sia ascoltata sul serio e affinché anch’essi possano sedere al tavolo delle decisioni.

Questo implica un cambiamento culturale sia per quelli che stanno più in alto (organismi finanziari e donanti) sia per quelli che stanno più in basso (società civile, ONG, organizzazioni contadine). Da un lato si tratta di rimettere in questione un modo di essere e di fare (top-down) che continua a caratterizzare gran parte degli interventi del nord, e dall’altra si tratta di cominciare ad accettare la logica del condividere responsabilità decisionali. Passare da una logica rivendicativa e di lotta ad una di responsabilità governative, dove difficilmente si fanno miracoli e dove ogni giorno bisogna imparare a mediare é, a mio avviso, tuttora un punto debole del mondo non governativo.

Sul fronte del nord si può e si deve mantenere la pressione per convincere almeno la facciata degli organismi finanziari e dei donanti a cambiare un po’. E’ovvio però che bisogna pensare a come fare squadra con movimenti e blocchi sociali che abbiano influenza su quei governi del nord. Pensare ad alleanze che permettano di entrare nel gioco della politica anche al nord. Di fatto si tratta di passare ad una tappa evolutiva superiore: costruire alleanze fra gli attori che troppo spesso collidono fra loro per gli stessi ideali (in teoria), in modo da aumentare la forza d’impatto; parallelamente pensare a strategie di alleanze dentro gli spazi aperti dalle politiche nei paesi del nord, e nello stesso tempo cercare di entrare in un’ottica negoziale con i governi dei paesi del sud.

Se si riesce ad aumentare la forza d’urto, ad avere una piattaforma comune, sarà un primo passo importante; abbiamo visto nel caso del Mozambico come questo abbia permesso negli anni 90 di far approvare una politica ed una legislazione per molti versi innovativa sul tema della terra per quanto riguarda i diritti delle comunità locali. Dobbiamo e possiamo dirlo: si può fare! Bisogna costruire questa rete con pazienza, volontà (ancora!!) e visione strategica, per dosare le forze, sapendo che si tratta di una lotta lunga e difficile.

Ma questo da solo non basterà. Per questo bisogna pensare anche a come far evolvere le istituzioni internazionali, gli organismi finanziari e i donanti, dal di dentro. Quindi una parte delle forze va messa anche in questi snodi, cercando di costruire con chi sia possibile e su quali principi condivisibili.
Infine, va fatta massa critica al nord, magari partendo da quei paesi (i Nordici) che sembrano più aperti su certe tematiche, in modo da portarli pian piano verso un ruolo propositivo internazionale di maggior peso. Bisogna costringere quelle forze politiche in teoria più vicine (socialiste, ecologiste..) a chiarirsi le idee su questi temi e portarli a fare lobbying con i loro capi partito, ministri e capi di governo quando siano al governo, in modo che sia possibile pensare a coalizioni che osino un giorno attaccare l’ingiustizia legata alla terra.

Quanti casi di suicidio si verificano in India fra gli agricoltori, a causa del problema terra-credito-prezzi? Dati ufficiali danno quasi 200mila persone per il periodo 1987-2007. Parliamo di una città come Padova, in dieci anni sparita dalla carta geografica.

Quanti conflitti sono stati dichiarati dal governo cinese (non dall’opposizione!!) nel 2005, la metà dei quali legati alle terre? Oltre 87mila . Negli anni successivi hanno preferito non dare più cifre.
Quanti i morti ammazzati in Brasile dal 1964 ad oggi per la questione terra? Quasi 3mila .
Quanti ettari si è comprato Benetton in Patagonia? 900mila (per capirci, quasi tre volte la superficie del lago di Garda) includendo varie famiglie mapuche che lì vivevano da sempre, creando così le premesse per un conflitto che a tutt’oggi non accenna a rientrare.

E’questo il mondo che vogliamo aver davanti a noi? E per sempre? Io ho scelto, da tempo, e ho detto NO.

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