L’accaparramento delle terre: riflessioni autunnali
Paolo Groppo, SOLO (Solutions Oriented Land Officer)
16-17 novembre 2009.
Al solo sentire la parola “accaparramento”, il commissario Charitos sarebbe corso a sfogliare il suo inseparabile dizionario. Ed avrebbe trovato che con questo termine (in inglese “grabbing”) si intende: ”l'acquisto di materie prime, semilavorati e beni finiti non disponibili sul mercato allo scopo di rivenderli a un prezzo fortemente maggiorato. Solitamente un operatore tratta il maggior numero di pezzi in un arco temporale per quanto possibile ristretto, in modo che in pochi si accorgano di quanto sta avvenendo. Si tratta di un comportamento considerato reato in tempo di guerra o grave crisi economica. Si differenzia dall'incetta in quanto quest'ultima riguarda un prodotto già ampiamente reperibile sul mercato”. (da Wikipedia).
Siamo quindi al limite del fuorigioco. Quando poi si associ la parola accaparramento alla questione delle terre, beni per definizione immobili, con un mercato da sempre molto limitato, ed a un periodo, come l’attuale, di forte crisi economica, è lecito porsi il dubbio se la linea del fuorigioco non sia stata oltrepassata.
Scrivo queste riflessioni durante la manifestazione della società civile di fronte al palazzo della FAO, contro i land grabbing (accaparramento delle terre), mentre sulla mia posta elettronica arriva l’ultima segnalazione della Ong GRAIN riguardo ad una strategia sempre più aggressiva nell’acquisto di terre in Brasile da parte di fondi speculativi .
Che da un paio d’anni a questa parte sia in atto una accelerazione del fenomeno, obbligando tutti gli osservatori ad alzare il livello di guardia, questo è pacifico oramai per molti . Forse però non si è fatta un’analisi completa delle componenti di quel fenomeno che chiamiamo accaparramento, per aiutare a preparare sia una strategia più completa per il suo contenimento, sia possibili risposte propositive e non solo reattive.
Mi sembra di poter dire che siano almeno le tre componenti che meritano maggiore attenzione : a) la speculazione finanziaria (che GRAIN cerca da tempo di monitorare), b) la questione sottostante del perché soprattutto paesi asiatici (ed uno in particolare) siano alla ricerca crescente di terre altrove, c) la conoscenza della situazione di base – il baseline caro ai nostri economisti – che ci permetta di farci un’idea su quanto sta accadendo.
Partiamo dalla speculazione finanziaria: secondo GRAIN un quarto dei 120 principali investitori corporativi globali (fondi pensione, hedge funds, private equity etc.) hanno già un piede nell’acquisto di terre in Brasile. Di altri casi eclatanti si è già parlato nei giornali, caso emblematico quello riguardante il Madagascar. Numeri certi nessuno può dire di averne a disposizione per cui il monitoraggio iniziato da GRAIN è senz’altro il benvenuto, anche se foriero di dibattiti destinati a prolungarsi nel tempo data la poca scarsa trasparenza delle informazioni (ed informatori) iniziali. Ciò che vorrei ricordare qui è l’effetto che questa speculazione ha avuto nei confronti delle popolazioni più povere. Non c’è dubbio che quando si parla degli speculatori che hanno portato alla crisi economica mondiale o di quelli che speculano sulle terre, stiamo parlando di due facce della stessa medaglia. Ed è una medaglia che finora è costata più di 100 milioni addizionali di persone sofferenti la fame, facendo oltrepassare la soglia simbolicamente così terribile del miliardo di persone.
Non risulta a nessuno che questi 100 milioni in più abbiano provocato manifestazioni a New York, Londra, Berlino o Parigi. Men che meno a Pechino o altrove. Detto in altri termini, il gran capitale del nord non è preoccupato di questi fattori periferici che, di fatto, non incidono sulle dinamiche del mondo “sviluppato”. Il controllo dell’informazione ed una società civile, tutto sommato assuefatta alle crisi e disastri che vediamo ogni giorno su televisioni e giornali, di fatto non hanno permesso nessun cambio di passo rispetto a simili annunci nel passato.
La realtà è che siamo disarmati di fronte al ruolo preponderante dell’economia e della finanza speculativa e siamo incerti sulle misure da prendere. Personalmente mi verrebbe da pensare che, vedendo l’effetto nefasto di questo fenomeno, avremmo qui un argomento d’oro per chiedere la fuoriuscita dell’agricoltura dal WTO. Per anni questo è stato un cavallo di battaglia dei movimenti sociali, ma non ricordo di aver letto nulla al riguardo delle conseguenze del land grabbing. Credo che finché si accetterà che l’agricoltura sia trattata alla stregua di qualsiasi altra mercanzia, di fatto non ci saranno armi legali o politiche per affrontare la questione della speculazione finanziaria sulle terre. Il ragionamento è semplice: trattare l’agricoltura come una qualsiasi altra merce vuol dire accettare l’inevitabilità dei fenomeni speculativi che avvengono quotidianamente su qualsiasi altro “asset” economico. Il costo è stato di più di 100 milioni di persone affamate in poco più di un anno e nulla lascia credere che nel prossimo anno andrà meglio. Quindi, usiamo questo momento per chiedere la fuoriuscita dal WTO non perché l’agricoltura non abbia una componente commerciale, ma semplicemente perché l’agricoltura è qualcosa di diverso, di più di questo: è cultura, identità e storia.
Il secondo aspetto riguarda la questione della disponibilità di terre agricole per produrre quantità crescenti di cibo per una popolazione che non solo aumenta ma cambia tipo di alimentazione, procedendo verso maggiori dosi di proteine animali che, naturalmente, necessitano di quantità maggiori di superficie per essere prodotte. Dal 2002 la FAO ha messo a disposizione uno studio che mette in evidenza come, nel caso dei paesi asiatici nel loro assieme, non esistano più nuove terre di buona qualità (categorie Suitable e Very Suitable) per l’agricoltura moderna, meccanizzata. I limiti della frontiera agricola sono stati raggiunti. Per quel tipo di agricoltura non c’è molto futuro in Asia. Esistono sì altre terre, ma di valore agronomico molto più basso, dove resistono da secoli forme diverse di agricoltura familiare capaci di adattarsi, di adeguare il loro materiale genetico, di diversificare le produzioni e mantenere un minimo equilibrio con la natura.
Ma anche lì, decenni di pessime politiche (se non di assenza di politiche) hanno portato ad un inaridimento e a difficoltà crescenti quanto alla possibilità non solo di crescere la produttività ma almeno di mantenere i livelli produttivi attuali. A livello macro questi fenomeni li vediamo all’opera al nord di Pechino, dove la desertificazione avanza e non è raro oggigiorno che sulla città soffino venti simili allo scirocco del Sahara che ogni tanto porta tonnellate di sabbia in Italia .
Mettiamoci poi la crescente urbanizzazione, la speculazione fondiaria che porta a destinare buone terre agricole a fini urbanistici o ricreativi (campi da golf) per una minoranza il cui potere acquisitivo è funzione dell’impoverimento dell’altra parte.
Quindi terra non ce n’è, salvo distruggere quel po’ di foreste o riserve che restano, oppure, come recita l’ultima pubblicazione della FAO, realizzare grossi investimenti per recuperare quelle terre degradate .
Ecco, forse su questo tema, tecnico, qualcosa di più si potrebbe chiedere ai governi e alle agenzie internazionali: trattandosi di temi tecnici, lì almeno non si possono avanzare giustificazioni di tipo politico. Le tecniche di lotta alla degradazione sono conosciute, come è conosciuta la necessità di associare i contadini a queste lotte, per cui pensare a modelli di sviluppo non nuovi, ma antichi come il mondo, basati su una agricoltura familiare, che meglio conosce il proprio territorio, le proprie specie coltivate, etc. pian piano potrebbe diventare un patrimonio comune su cui creare consenso. Nell’immediato, anche questo potrebbe far parte di un pacchetto di rivendicazioni: lottare contro la desertificazione, a partire da un approccio non solo tecnico, ma che associ gli attori più direttamente interessati.
Immaginiamo: siamo riusciti a contenere la speculazione finanziaria ed anche la degradazione; nuove politiche agricole cominciano a dare più spazio alle agricolture familiari, le loro conoscenze storiche sui loro sistemi agrari cominciano a far parte del patrimonio operativo di chi, governi e agenzie internazionali e ong operano su questi temi. Con questo pensiamo di esser tornati ad un mondo migliore? Io direi di no, perché il baseline sul quale ci misuriamo da decenni, prima e dopo la decolonizzazione, riguarda un accaparramento fatto prima in nome delle potenze colonizzatrici e poi mantenuto dai nuovi governi emersi dalle lotte di liberazione.
Che si sia trattato di paesi latinoamericani, africano od asiatici, di governi detti di “sinistra” o di “destra” troviamo sempre un punto comune: l’indifferenza, se non il disprezzo, riguardo ai diritti storici delle comunità locali, degli indigeni ed al ruolo storico della agricoltura familiare come motore dello sviluppo. Si è partiti da modelli che negavano l’esistenza di questi diritti storici, perché si trattava di sistemi “tradizionali”, quindi vecchi, da contrapporre ad una agricoltura “moderna”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: non esiste un solo paese che possa vantare la superiorità della agricoltura moderna (le plantations) rispetto ai risultati dell’agricoltura familiare. E laddove i diritti delle terre delle comunità locali non sono stati (volutamente) riconosciuti, pian piano sta nascendo una crisi di proporzioni molto maggiori, la cui gestazione potrà prendere anni, ma i cui effetti potrebbero essere devastanti.
Paesi che abbiano una legislazione che riconosca i diritti territoriali delle comunità locali o delle popolazioni indigene, ce ne sono molto pochi. Ancor meno quelli che le rendano realmente operative. In un contesto oggigiorno di perdita della biodiversità causata dallo sfruttamento incontrollato e selvaggio delle foreste e delle altre risorse risorse naturali, di riduzioni della diversità genetica, proteggere la trasmissione delle conoscenze tradizionali contadine ed indigene dovrebbe essere un elemento chiave.
Al contrario, ciò a cui assistiamo è una occupazione delle buone terre, mediante prestanome, da parte di una élite che oggigiorno mischia contatti politici con quelli economici. Il fatto che questo accaparramento abbia il passaporto nazionale probabilmente non rende più felici le popolazioni locali, anzi, riduce ulteriormente la loro possibilità di ribellarsi.
Questo per dire che si dovrebbe andare alla radice del fenomeno, e la questione del riconoscimento di questi diritti, che si tratti di comunità locali, di popolazioni indigene etc. dovrebbe essere la linea guida, dentro un pacchetto di richieste che inserisca anche i punti citati prima.
La domanda implicita che ci si pone alla fine è ovvia: ma c’è spazio per fare qualcosa di diverso? E con chi allearsi? Ad essere onesti, è evidente che il rapporto di forza non va nella giusta direzione. I governi realmente interessati a toccare questi temi sono pochi. L’assenza di tutti i capi di Stato del G8 al recente summit della FAO la dice lunga su quanto il tema sia prioritario nelle agende nazionali. Restano i movimenti sociali, almeno una parte della società civile, se sapranno articolarsi in maniera più definita e fluida. Mi sembra sia necessario ancora uno sforzo per vincere reticenze e preconcetti. Se penso a un processo o un’iniziativa di sviluppo senza un rapporto di collaborazione tra agenzie UN – ONG/CSOs – attori e territorio penso a un coro stonato, un coro a cui mancano voci importanti. A differenza però dei cori veri in questo caso il direttore di orchestra non è UNO, ma devono essere TUTTI i coristi, che scelgono il repertorio da eseguire e l’interpretazione da dare. Questa guida congiunta, questo fare sponda, concertarsi meglio, può aumentare la forza propulsiva e forzare cambiamenti (nei confronti di chi detiene oggi gran parte del potere economico, mediatico e politico), che altrimenti resteranno solo dei sogni.
D’altronde non è che vi siano molte altre scelte: un accaparramento delle terre e una continua concentrazione delle stesse in poche mani – come sta succedendo in molti, troppi paesi, può solo espellere contadini e contadine, il cui esodo non si arresterà nelle città e favelas del sud del mondo, ma li obbligherà a spingersi più a nord. Finché non capiremo che la nostra crisi del nord è strettamente legata a quella del sud, e che non può esserci risposta ai nostri problemi senza uno sforzo parallelo e maggiore nel sud, resteremo qui a spargere parole al vento.
Ma vale la pena provarci, non siamo in pochi? Chissà. Voglio credere di no e per questo metto in linea queste pagine, per spingere questa bottiglia verso altri lidi dove qualcuno ascolterà, risponderà e si unirà alla lotta.
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